Перевод: со всех языков на все языки

со всех языков на все языки

sei pronto

  • 1 'sei pronto?' - 'sì!'

    'sei pronto?' - 'sì!'
    "are you ready" - "yes, I am!"
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    → 

    Dizionario Italiano-Inglese > 'sei pronto?' - 'sì!'

  • 2 pronto

    pronto I. agg. 1. ( preparato) prêt: il pranzo è pronto le déjeuner est prêt; sei pronto per uscire? tu es prêt pour sortir?; sarò pronta in cinque minuti je serai prête en cinq minutes; tenersi pronto se tenir prêt. 2. ( disposto) prêt: essere pronto a fare qcs. être prêt à faire qqch. 3. ( incline) prêt, enclin: sarei pronto a scommettere che... je serais prêt à parier que... 4. ( vivace) vif: intelligenza pronta intelligence vive. 5. (Comm,Econ) (rif. a denaro: in contanti) comptant. II. intz. ( Tel) allô?: pronto, chi parla? allô, qui est à l'appareil?

    Dizionario Italiano-Francese > pronto

  • 3 pronto

    ( preparato) ready ( a fare qualcosa to do something
    per qualcosa for something)
    ( rapido) speedy, prompt
    telecommunications pronto! hello!
    pagamento m pronta cassa payment in cash, cash payment
    pronto soccorso first aid
    in ospedale accident and emergency, A&E
    pronto per l'uso ready to use
    * * *
    pronto agg.
    1 ready, prepared: la colazione è pronta, lunch is ready; l'automobile è pronta, the car is ready; la merce è pronta per la spedizione, the goods are ready for shipment; non sono ancora pronto, I am not ready yet; sei pronto per incominciare?, are you ready to begin?; non era pronto per l'esame, he wasn't ready for the exam; sarei pronto a giurarlo, I could swear to it; sono pronto a fare ciò che vuoi, I am ready to do what you want; pronto all'azione, ready for action; pronto ad ogni evenienza, ready (o prepared) for every eventuality; i fanatici sono pronti a tutto, anche a morire, fanatics are ready to do anything, even to die; siate pronti alle cinque precise, be ready at five o'clock sharp; tutto era pronto per il matrimonio, everything was ready for the wedding; tener pronto qlco., to keep sthg. ready: tieni pronto un ombrello, keep an umbrella ready; tenersi pronto, to be prepared (o ready): tienti pronto a partire da un momento all'altro, be prepared (o ready) to leave at a moment's notice // pronto!, ( al telefono) hello! // pronti?, via!, ( alla partenza) ready?, go! // pronto soccorso, first aid; ( il reparto) casualty, emergency unit (o amer. emergency room, ER); pronto intervento, emergency assistance
    2 ( lesto, rapido) prompt, quick, ready: pronto nelle risposte, ready in one's answers, intelligenza pronta, quick intelligence; movimenti pronti, quick movements; un ragazzo pronto, a quick (o alert) boy; risposta pronta, prompt answer; ( sollecita) early answer; ha sempre la battuta pronta, he always has a ready answer
    3 (comm.) ready, prompt, spot: pronta consegna, prompt (o ready o spot) delivery // a pronti, ( in contanti) prompt (o by cash o prompt cash): pagamento a pronti, cash (o spot) payment // (mar.) pronto imbarco, prompt shipment
    4 ( incline) inclined, ready: è sempre pronto alla critica, he's always inclined to criticize; bisognerebbe sempre essere pronti al perdono, we should always be ready to forgive.
    * * *
    ['pronto] pronto (-a)
    1. agg
    1) (gen) ready
    2) (intervento: rapido) quick, prompt, fast
    2. escl

    (in gara, gioco) pronti! via! — ready! steady! go!

    PAROLA CHIAVE: la parole pronto è usata in inglese ma con il significato di 'subito', 'immediatamente'
    * * *
    ['pronto]
    1) ready (a, per to, for)

    tenersi pronto perto be ready o to brace for

    essere pronto a intervenire — [dottore, esercito, servizi di emergenza] to stand by, to be on standby

    ha sempre una scusa -ahe's never short of an excuse o he's always got an excuse ready

    non era -a ad affrontare il problemashe wasn't equipped o prepared o ready to cope with the problem

    -i, partenza, via! — ready, steady, go!

    è pronto a tuttohe's game o ready for anything

    sarei pronto a scommettere che... — I'd be willing to wager that

    2) (rapido) prompt
    3) (sveglio) [ mente] quick, clever, nimble, agile, quick-witted

    avere i riflessi -ito have quick o good reflexes

    5) bell'e pronto [risposta, scusa, soluzione] ready-made

    pronto soccorso — first aid; ( reparto) emergency ward

    * * *
    pronto
    /'pronto/
     1 ready (a, per to, for); pronto per l'uso ready for use; sarò -a in un minuto I'll be ready in a minute; il pranzo è pronto lunch is ready! tenersi pronto per to be ready o to brace for; essere pronto a intervenire [dottore, esercito, servizi di emergenza] to stand by, to be on standby; essere -i al peggio to be prepared for the worst; ha sempre una scusa -a he's never short of an excuse o he's always got an excuse ready; non è ancora pronto per l'esame he isn't ready for the exam yet; non era -a ad affrontare il problema she wasn't equipped o prepared o ready to cope with the problem; -i, partenza, via! ready, steady, go! è pronto a tutto he's game o ready for anything; essere pronto a criticare to be ready with one's criticism; essere pronto ad ammettere i propri errori to be quick to admit one's mistakes; sarei pronto a giurarlo I'll take my oath on it; sarei pronto a scommettere che... I'd be willing to wager that...
     2 (rapido) prompt; i migliori auguri di -a guarigione best wishes for a speedy recovery; ha sempre la risposta o battuta -a she is quick on the draw
     3 (sveglio) [ mente] quick, clever, nimble, agile, quick-witted; avere i riflessi -i to have quick o good reflexes
     4 (al telefono) pronto! hello!
     5 bell'e pronto [ risposta, scusa, soluzione] ready-made
    pronto soccorso first aid; ( reparto) emergency ward.

    Dizionario Italiano-Inglese > pronto

  • 4 dunque, non sei ancora pronto?

    нареч.
    общ. так значит, ты ещё не готов?

    Итальяно-русский универсальный словарь > dunque, non sei ancora pronto?

  • 5 ready ****

    English-Italian dictionary > ready ****

  • 6 right

    I 1. [raɪt]
    1) U (side, direction) destra f., parte f. destra

    keep to the rightaut. tenere la destra, viaggiare a destra

    on o to your right alla vostra destra; take the second right — prenda la seconda a destra

    2) U + verbo sing. pol. (anche Right)
    3) U (morally) giusto m., bene m.
    4) (just claim) diritto m.

    to have a right to sth. — avere diritto a qcs.

    5) (in boxing) destro m.
    2.
    nome plurale rights
    1) comm. dir. diritti m.

    to have the sole rights to sth. — avere l'esclusiva o il diritto esclusivo su qcs

    ••

    by rights — di diritto, di regola

    to put sth. to rights — mettere a posto qcs., sistemare qcs

    II [raɪt]

    on my right hand (position) alla o sulla mia destra

    2) (morally correct) giusto, onesto, leale; (fair) giusto, corretto, equo

    it is right and proper that... — è sacrosanto che...

    to do the right thing by sb. — fare il proprio dovere nei confronti di qcn

    3) (correct, true) [choice, direction] giusto; [ word] giusto, esatto, appropriato; (accurate) [ time] giusto, esatto, preciso

    to be right — [ person] avere ragione, essere nel giusto; [ answer] essere esatto o giusto

    that's right — benissimo, giusto

    am I right in thinking that...? — è vero che...?

    to get one's facts rightdocumentarsi o informarsi bene

    4) (most suitable) [clothes, equipment] giusto, adatto, appropriato; [ person] giusto, adatto
    5) (in good order) [ machine] in buone condizioni, in buono stato; (healthy) [ person] sano, in buone condizioni

    to put o set right rimediare a, correggere [ mistake]; riparare [ injustice]; sistemare, mettere a posto [ situation]; riparare [ machine]; to put o set one's watch right mettere a posto l'orologio; they gave him a month to put o set things right gli diedero un mese per sistemare le cose; to put o set sb. right — fare ricredere qcn

    7) mat. [ angle] retto

    at right angles to — ad angolo retto con, perpendicolare a

    8) BE colloq. (emphatic)
    9) BE colloq. (ready)
    ••

    right you are!colloq.

    right-oh!BE colloq. benissimo! d'accordo! senz'altro!

    III [raɪt]
    1) (of direction) a destra

    to turn rightgirare o svoltare a destra

    they looked for him right, left and centre — colloq. lo cercarono ovunque o da tutte le parti o a destra e a sinistra

    they are arresting people right, left and centre — colloq. stanno arrestando la gente in massa

    2) (directly) direttamente, proprio

    I'll be right backtorno subito o immediatamente

    right before — proprio prima, appena prima

    right in the middle of the roomesattamente o proprio al centro della stanza

    right now (immediately) subito, immediatamente; (at this point in time) al momento

    4) (correctly) bene, correttamente

    I guessed right — ho indovinato, ho visto giusto

    if I remember right — se ben ricordo, se non ricordo male

    5) (completely) completamente, del tutto

    he looked right through mefig. fece finta di non vedermi

    we're right behind you!fig. ti sosteniamo! ti siamo accanto in tutto e per tutto!

    7) (very well) molto bene

    right, let's have a look — benissimo, diamo un'occhiata

    ••

    right enoughcolloq. certamente, innegabilmente, senza dubbio

    to see sb. right — (financially) non fare mancare niente a qcn.; (in other ways) togliere qcn. dai guai, cavare qcn. dagli impicci

    IV 1. [raɪt]
    1) (restore to upright position) raddrizzare, drizzare [ ship]
    2) (correct) riparare [ injustice]
    2.

    to right oneself — [ person] tirarsi su, mettersi in piedi

    to right itself — [ ship] raddrizzarsi, tornare diritto; [ situation] aggiustarsi, sistemarsi

    * * *
    1. adjective
    1) (on or related to the side of the body which in most people has the more skilful hand, or to the side of a person or thing which is toward the east when that person or thing is facing north (opposite to left): When I'm writing, I hold my pen in my right hand.) destro
    2) (correct: Put that book back in the right place; Is that the right answer to the question?) giusto, corretto
    3) (morally correct; good: It's not right to let thieves keep what they have stolen.) giusto
    4) (suitable; appropriate: He's not the right man for this job; When would be the right time to ask him?) adatto, giusto
    2. noun
    1) (something a person is, or ought to be, allowed to have, do etc: Everyone has the right to a fair trial; You must fight for your rights; You have no right to say that.) diritto
    2) (that which is correct or good: Who's in the right in this argument?) giusto
    3) (the right side, part or direction: Turn to the right; Take the second road on the right.) destra
    4) (in politics, the people, group, party or parties holding the more traditional beliefs etc.) destra
    3. adverb
    1) (exactly: He was standing right here.) proprio
    2) (immediately: I'll go right after lunch; I'll come right down.) subito
    3) (close: He was standing right beside me.) proprio
    4) (completely; all the way: The bullet went right through his arm.) completamente
    5) (to the right: Turn right.) a destra
    6) (correctly: Have I done that right?; I don't think this sum is going to turn out right.) bene, giusto
    4. verb
    1) (to bring back to the correct, usually upright, position: The boat tipped over, but righted itself again.) raddrizzare, raddrizzarsi
    2) (to put an end to and make up for something wrong that has been done: He's like a medieval knight, going about the country looking for wrongs to right.) rimediare
    5. interjection
    (I understand; I'll do what you say etc: `I want you to type some letters for me.' `Right, I'll do them now.') certo
    - righteously
    - righteousness
    - rightful
    - rightfully
    - rightly
    - rightness
    - righto
    - right-oh
    - rights
    - right angle
    - right-angled
    - right-hand
    - right-handed
    - right wing
    6. adjective
    ((right-wing) (having opinions which are) of this sort.) di destra
    - by rights
    - by right
    - get
    - keep on the right side of
    - get right
    - go right
    - not in one's right mind
    - not quite right in the head
    - not right in the head
    - put right
    - put/set to rights
    - right away
    - right-hand man
    - right now
    - right of way
    - serve right
    * * *
    I 1. [raɪt]
    1) U (side, direction) destra f., parte f. destra

    keep to the rightaut. tenere la destra, viaggiare a destra

    on o to your right alla vostra destra; take the second right — prenda la seconda a destra

    2) U + verbo sing. pol. (anche Right)
    3) U (morally) giusto m., bene m.
    4) (just claim) diritto m.

    to have a right to sth. — avere diritto a qcs.

    5) (in boxing) destro m.
    2.
    nome plurale rights
    1) comm. dir. diritti m.

    to have the sole rights to sth. — avere l'esclusiva o il diritto esclusivo su qcs

    ••

    by rights — di diritto, di regola

    to put sth. to rights — mettere a posto qcs., sistemare qcs

    II [raɪt]

    on my right hand (position) alla o sulla mia destra

    2) (morally correct) giusto, onesto, leale; (fair) giusto, corretto, equo

    it is right and proper that... — è sacrosanto che...

    to do the right thing by sb. — fare il proprio dovere nei confronti di qcn

    3) (correct, true) [choice, direction] giusto; [ word] giusto, esatto, appropriato; (accurate) [ time] giusto, esatto, preciso

    to be right — [ person] avere ragione, essere nel giusto; [ answer] essere esatto o giusto

    that's right — benissimo, giusto

    am I right in thinking that...? — è vero che...?

    to get one's facts rightdocumentarsi o informarsi bene

    4) (most suitable) [clothes, equipment] giusto, adatto, appropriato; [ person] giusto, adatto
    5) (in good order) [ machine] in buone condizioni, in buono stato; (healthy) [ person] sano, in buone condizioni

    to put o set right rimediare a, correggere [ mistake]; riparare [ injustice]; sistemare, mettere a posto [ situation]; riparare [ machine]; to put o set one's watch right mettere a posto l'orologio; they gave him a month to put o set things right gli diedero un mese per sistemare le cose; to put o set sb. right — fare ricredere qcn

    7) mat. [ angle] retto

    at right angles to — ad angolo retto con, perpendicolare a

    8) BE colloq. (emphatic)
    9) BE colloq. (ready)
    ••

    right you are!colloq.

    right-oh!BE colloq. benissimo! d'accordo! senz'altro!

    III [raɪt]
    1) (of direction) a destra

    to turn rightgirare o svoltare a destra

    they looked for him right, left and centre — colloq. lo cercarono ovunque o da tutte le parti o a destra e a sinistra

    they are arresting people right, left and centre — colloq. stanno arrestando la gente in massa

    2) (directly) direttamente, proprio

    I'll be right backtorno subito o immediatamente

    right before — proprio prima, appena prima

    right in the middle of the roomesattamente o proprio al centro della stanza

    right now (immediately) subito, immediatamente; (at this point in time) al momento

    4) (correctly) bene, correttamente

    I guessed right — ho indovinato, ho visto giusto

    if I remember right — se ben ricordo, se non ricordo male

    5) (completely) completamente, del tutto

    he looked right through mefig. fece finta di non vedermi

    we're right behind you!fig. ti sosteniamo! ti siamo accanto in tutto e per tutto!

    7) (very well) molto bene

    right, let's have a look — benissimo, diamo un'occhiata

    ••

    right enoughcolloq. certamente, innegabilmente, senza dubbio

    to see sb. right — (financially) non fare mancare niente a qcn.; (in other ways) togliere qcn. dai guai, cavare qcn. dagli impicci

    IV 1. [raɪt]
    1) (restore to upright position) raddrizzare, drizzare [ ship]
    2) (correct) riparare [ injustice]
    2.

    to right oneself — [ person] tirarsi su, mettersi in piedi

    to right itself — [ ship] raddrizzarsi, tornare diritto; [ situation] aggiustarsi, sistemarsi

    English-Italian dictionary > right

  • 7 ci

    1. pron us
    non ci ha parlato he didn't speak to us
    ci siamo divertiti molto we had a great time
    ci vogliamo bene we love each other
    ci penso I'm thinking about it
    2. adv here
    () there
    ci sei? are you there?
    c'è... there is...
    ci sono... there are...
    ci vuole tempo it takes time
    * * *
    ci1 pron.pers. 1a pers.pl.
    1 (con funzione di compl. ogg.) us: tutti ci guardano, everyone's looking at us; non ci hanno visto, they didn't see us; prendeteci con voi, take us with you; non è neppure venuto a salutarci, he didn't even come to say goodbye (to us); non ci disturbare, per favore, please don't disturb us
    2 (con funzione di compl. di termine) (to) us: ci ha dato un buon indirizzo, he gave us a good address; non hanno voluto parlarci, they wouldn't speak to us; raccontateci tutto, tell us all about it; spediteci la merce al più presto possibile, send us the goods as soon as possible
    pron.rifl. 1a pers.pl. ourselves ( spesso sottinteso): sono certo che ci divertiremo molto, I'm sure we'll enjoy ourselves immensely; ci costruiremo una bella casetta in campagna, we'll build ourselves a nice little house in the country; ci siamo lasciati imbrogliare un'altra volta, we've let ourselves be fooled again; ci alzammo presto e ci preparammo a partire, we got up early and prepared to leave; dobbiamo lavarci le mani, we must wash our hands; ci eravamo più volte lamentati del servizio, we had complained about the service several times
    pron.rec. one another; (spec. tra due) each other: ci guardammo senza parlare, we looked at each other without speaking; noi tutti ci vogliamo molto bene, we're all very fond of one another; non ci siamo ancora salutati, we haven't said hallo yet; ci siamo scambiati gli indirizzi, we exchanged addresses
    pron.dimostr. this; that; it: non posso farci nulla, I can't do anything about it; ci penserò, I'll think about it; non badarci, never mind about it (o pay no attention to it); ci puoi scommettere!, you bet!
    ci1 avv.
    1 () there; ( qui) here: ci andremo subito, we'll go there at once; eccoci, finalmente!, here we are, at last!; ci risiamo!, (fig.) here we go again!; ''Sei mai stato a New York?'' ''No, non ci sono mai stato, ma spero di andarci prima o poi'', ''Have you ever been to New York?'' ''No, I haven't, but I hope to go there sooner or later''; ''Ci sarai domani?'' ''Certo, ci saremo tutti '', ''Will you be (t)here tomorrow?'' ''Of course, we'll all be (t)here''; è andato in Venezuela per lavoro e ci resterà tre settimane, he has gone to Venezuela on business, and he'll be there for three weeks; non ci stiamo tutti in una macchina, we can't all get into one car
    2 ( per questo o quel luogo) through: conosco la zona, ci passo tutti i giorni per andare in ufficio, I know the area, as I pass through it every day on my way to the office; è un importante nodo ferroviario, ci passano tutti i treni diretti al nord, it's an important railway junction, as all the northbound trains pass through it
    3 (con il v. essere) there: c'è, ci sono, there is, there are; c'erano più di 60.000 persone allo stadio, there were over 60,000 people at the stadium; ci sono ospiti stasera, we are having guests this evening; c'è modo e modo, there's a right way and a wrong way // non c'è verso di farglielo capire, there's no way of making him understand // non c'è che dire, there's no doubt about it.
    ci2 s.m. o f. letter c.
    * * *
    [tʃi] dav lo la, li, le, ne diventa ce
    1. pron pers
    3)

    (con verbi riflessivi, pronominali, reciproci) ci siamo divertiti — we enjoyed ourselves

    2. pron dimostr
    (di ciò, su ciò, in ciò ecc) about (o on o of) it

    ci puoi giurare, ci puoi scommettere — you can bet on it

    3. avv
    1) (qui) here, (lì) there

    ci sei? (sei pronto) are you ready?, (hai capito) do you follow?

    non ci si sta tutti, non ci stiamo tutti — we won't all fit in

    2)

    c'era una volta... — once upon a time...

    3)

    (con verbi di moto) ci passa sopra un ponte — a bridge passes over it

    See:
    * * *
    I 1. [tʃi]
    4) (pleonastico: non si traduce)
    2.
    1) (a ciò, in ciò)

    ci rinuncio, non ci capisco niente — I give up, I can't make anything of it

    a me non ci pensi? — well, what about me?

    3.

    non ci sono mai venuto — I never came here, I've never been here before

    l'armadio non ci passa — the wardrobe doesn't go through; (pleonastico)

    2) esserci essere. I
    II [tʃi]
    sostantivo maschile e sostantivo femminile invariabile c, C
    * * *
    ci1
    /t∫i/
    I pron.pers..
     1 (complemento oggetto) us; ci chiamò he called us; perdonateci forgive us
     2 (complemento di termine) us; dicci quando tell us when; ci parlò he talked to us
     3 (con verbi riflessivi e pronominali) ci siamo fatti male we've hurt ourselves; non ci vediamo da mesi we haven't seen each other for months; ci incontriamo alle due we're meeting at two
     4 (pleonastico: non si traduce) ci siamo fatti una bella risata we had a good laugh; ci togliemmo le scarpe we took off our shoes
     5 (in costruzioni impersonali) di lui non ci si può fidare he can't be relied (up)on; un'abitudine che ci si porta dietro dall'infanzia a habit that is carried over from childhood
     1 (a ciò, in ciò) non ci credo I don't believe it; ci rinuncio, non ci capisco niente I give up, I can't make anything of it; ci penserò I'll think about it; ci vuole molto tempo it takes a long time
     2 (pleonastico) a me non ci pensi? well, what about me? con te non ci parlo più! I won't speak to you! I refuse to speak to you any more!
     1 (di luogo) non ci sono mai venuto I never came here, I've never been here before; ci passo tutti i giorni I go that way every day; l'armadio non ci passa the wardrobe doesn't go through; (pleonastico) in questa casa non ci abita nessuno nobody lives in this house
     2 esserci → 1. essere.
    \
    See also notes... (ci.pdf)
    ————————
    ci2
    /t∫i/
    m. e f.inv.
    c, C.

    Dizionario Italiano-Inglese > ci

  • 8 ci

    [tʃi] dav lo la, li, le, ne diventa ce
    1. pron pers
    3)

    (con verbi riflessivi, pronominali, reciproci) ci siamo divertiti — we enjoyed ourselves

    2. pron dimostr
    (di ciò, su ciò, in ciò ecc) about (o on o of) it

    ci puoi giurare, ci puoi scommettere — you can bet on it

    3. avv
    1) (qui) here, (lì) there

    ci sei? (sei pronto) are you ready?, (hai capito) do you follow?

    non ci si sta tutti, non ci stiamo tutti — we won't all fit in

    2)

    c'era una volta... — once upon a time...

    3)

    (con verbi di moto) ci passa sopra un ponte — a bridge passes over it

    See:

    Nuovo dizionario Italiano-Inglese > ci

  • 9 ci

    I
    1. pron. pers. (ce) (anche enclitico)
    1) (compl. oggetto) нас; (compl. di termine) нам

    se vuoi vederci, ci trovi qui fino alle sei — если ты захочешь нас увидеть, мы до шести часов здесь

    2) (rifl.)
    2. pron. dimostr.
    в это, об (в) этом, на это (этом)
    II (ce) avv. (anche enclitico)
    1.
    1) (stato in luogo) здесь, тут; там; (moto a luogo) сюда; туда
    2) (+ essere) есть, имеется (o non si traduce)
    3) (pleonastico, + avere)
    2.

    ci sto! — я согласен!

    c'era una volta... — жил-был когда-то...

    ci sei?a) (sei pronto) ты готов?; b) (hai capito) ты понял? (gerg. ты усёк?)

    non c'è male! — неплохо! (недурно!, недурственно!)

    non c'entra affatto — это ни к селу, ни к городу

    quanto ti ci vuole per arrivare alla stazione? — сколько тебе потребуется времени, чтобы доехать до вокзала?

    ce l'abbiamo fatta! — готово! (получилось!, вышло! сумели!)

    non rovinarmi gli sci, ci tengo molto — не сломай мои лыжи, я очень ими дорожу

    c'è caso che venga — не исключается, что он придёт

    è bella, non c'è che dire! — ничего не скажешь (слов нет): хороша!

    Il nuovo dizionario italiano-russo > ci

  • 10 ♦ just

    ♦ just /dʒʌst/
    A a.
    1 giusto; onesto; retto: a just cause, una causa giusta; a just man, un uomo giusto (o retto)
    2 giusto; equo; imparziale: just price, prezzo giusto; a just trial, un processo equo; to be just to sb., essere giusto verso q.
    3 giusto; giustificato; fondato; legittimo: just resentment, risentimento giustificato; just suspicion, sospetto fondato; (leg.) just title, titolo legittimo ( di proprietà)
    4 giusto; adeguato; meritato: a just reward, una giusta ricompensa; a just punishment, una punizione meritata; un giusto castigo; to get one's just deserts, avere quello che ci si merita
    5 giusto; preciso; esatto; corretto: just proportions, giuste proporzioni
    B avv.
    1 esattamente; precisamente; proprio; per l'appunto; giusto (fam.): Just what I was looking for!, proprio quel che cercavo!; It was just here, era proprio qui; She is just like her mother, è proprio come sua madre; Just as I was going to answer, the phone rang, proprio quando stavo per rispondere è suonato il telefono; Just as you wish, come desideri; just then, proprio allora; in quel momento; I can just hear her saying that, me la immagino proprio mentre dice una cosa simile
    2 appena; solo; soltanto: It's just four o'clock, sono appena le quattro; I have just enough money, ho appena denaro a sufficienza; Take just one!, prendine soltanto uno!
    3 solo; soltanto; semplicemente; unicamente: I'm just passing through, sono solo di passaggio; just for a laugh, solo per farsi due risate
    4 appena; subito; (di) poco: just after midnight, subito dopo mezzanotte; just under 5 percent, poco sotto il 5 per cento
    5 appena; or ora; poco fa: I've just seen him, l'ho visto or ora; She has just left, è appena partita
    6 (= only just) appena in tempo; a mala pena; per un soffio; per un pelo: We just made it to the station, siamo arrivati appena in tempo alla stazione; You've just missed him, l'hai mancato per un soffio; just in time, appena (o giusto) in tempo
    7 (idiom., spec. enfat., per es.:) Just shut the door, will you?, vuoi chiudere la porta, per favore?; Just listen to me!, stammi bene a sentire!; Just help yourselves, servitevi pure; Just think!, pensa!; pensa un po'!; He just won't listen, non vuole proprio ascoltare; It's just beautiful, è bellissimo!; not just yet, non adesso; non ancora; «Tom's been great» «Hasn't he just?», «Tom è stato fantastico» «Davvero!»
    8 (con verbo modale) forse; quasi quasi: You might just catch them, forse riesci a raggiungerli
    ● (fam.) just about, pressappoco; più o meno; quasi: We're just about ready, siamo quasi pronti; just about enough, quasi abbastanza; quanto basta o quasi; just about everything, praticamente tutto; just about here, qui intorno; da qualche parte; qui in giro; «Have you got enough money with you?» «Just about», «I soldi che hai ti bastano?» «Più o meno»; DIALOGO → - Going on holiday 2- «Are you ready to go?» DIALOGO → - Going on holiday 2- «Yes, just about», «Sei pronto per andare?» «Sì, quasi» □ just as, (+ agg.), altrettanto; quanto: You're just as experienced as she is, sei esperto quanto lei; hai altrettanta esperienza di lei □ just as well, anche; alla stessa stregua: It might just as well have been him, sarebbe potuto anche (o benissimo) essere stato lui; You might just as well tell her, potresti anche dirglielo; tanto vale che tu glielo dica □ ( it's) just as well, meno male; per fortuna: It's just as well I brought my umbrella, meno male che ho preso l'ombrello □ just in case, nel caso che; caso mai: just in case it should rain, caso mai dovesse piovere □ (org. az.) just-in-time (abbr. JIT), just-in-time ( tecnica di produzione e gestione aziendale) □ just like that, così, semplicemente; come se niente fosse; senza preavviso o spiegazione; pari pari □ just my luck!, la (mia) solita sfortuna! □ Just a moment, please, un momento, prego □ just now, ora, proprio adesso, in questo momento; ( anche) poco fa, or ora, un minuto fa: He's out just now, ora non c'è; I met him just now, l'ho incontrato poco fa □ just on, esattamente: just on ten kilos, esattamente dieci chili; dieci chili esatti □ just the same, proprio uguale, identico; ( anche) ugualmente, lo stesso: My watch is just the same as yours, il mio orologio è uguale al tuo; I'll go just the same, ci andrò lo stesso □ just so, perfettamente in ordine; al posto giusto: Everything had to be just so, tutto doveva essere perfettamente in ordine □ Just so!, precisamente; esattamente; appunto □ just the thing (o the ticket)!, proprio quello che ci vuole (o che ci voleva)!; proprio così! □ ( sport: di un tiro, ecc.) just wide, appena fuori □ That's just it, appunto!; ecco!; precisamente! □ (fam.) I should just think so!, vorrei vedere ( che non fosse così)!; sarebbe bella!

    English-Italian dictionary > ♦ just

  • 11

    1. pron oneself
    lui himself
    lei herself
    esso, essa itself
    loro themselves
    reciproco each other
    spazzolarsi i capelli brush one's hair
    si è spazzolato i capelli he brushed his hair
    si dice they say
    cosa si può dire? what can one say?, what can I say?
    si capisce da sé it's self-evident
    2. m music B
    * * *
    si1 s.m. (mus.) si, B.
    si2 pron.rifl.m. e f. 3a pers.sing. e pl.compl.ogg. e ind.
    1 ( con i verbi riflessivi) himself; herself; itself; themselves; (riferito a sogg. impers.) oneself ( in inglese sono spesso omessi): si è tagliato con un coltello, he cut himself with a knife; ella si guardò allo specchio, she looked at herself in the mirror; non si erano mai divertiti tanto, they had never enjoyed themselves so much; quando si presenterà un'occasione simile?, when will such an opportunity present itself (o occur) again?; vedendosi scoperto, capì che non aveva scampo, seeing himself discovered, he realized there was no escape; bisogna prepararsi al peggio, we must prepare ourselves for the worst; si veste con gusto, she dresses in good taste; il gatto si è nascosto nel ripostiglio, the cat hid in the cupboard; la porta si richiuse dietro di noi, the door closed again behind us; quando mi vide, si fermò, when he saw me, he stopped; si alzano presto la mattina, they get up early in the morning; in questi casi è opportuno rivolgersi a un avvocato, in cases like this, it is advisable to see a lawyer ∙ Come si nota dagli esempi, non sempre i verbi riflessivi in it. hanno in inglese la coniugazione riflessiva
    2 (coi riflessivi apparenti, con funzione di compl. di termine, in inglese si usa l'agg. poss. corrispondente): si è lavato le mani?, has he washed his hands?; si mise le mani in tasca, he put his hands in his pockets; si levarono il cappello, they took their hats off; si è fatto male a un ginocchio, he hurt his knee
    3 (coi verbi intr. pron.; in inglese non si traduce): si dimentica sempre di chiudere la porta, he always forgets to close the door; si ricordarono di me, they remembered me; si accorse di non avere il portafogli, he realized he hadn't got his wallet; non fa che lamentarsi, he does nothing but complain
    pron.rec. one another; (spec. tra due) each other: si guardarono negli occhi, they gazed into each other's eyes; non si parlano più, they don't speak to each other any more; si scambiarono gli auguri, they greeted one another; i sindacati si consultarono ( tra loro) per decidere sulle modalità dello sciopero, the trade unions met to decide how to conduct the strike
    particella pron. (nella costr. impers.)
    1 one; they; people; we; you; man, men: si dice, they say; si direbbe che..., one (o you) would say that...; si parte tra poco, we're leaving soon; come si arriva all'autostrada?, how do you get to the motorway?; a scuola si viene in orario, you must come to school on time; ci si sente impotenti di fronte a tanta violenza, one feels helpless in the face of such violence; non si deve dimenticare che..., we (o one o you) must not forget that...; si raccomanda la massima discrezione, you must be as discreet as possible; ''Si può passare di qui?'' ''No, non si può'', ''Can you go this way?'' ''No, you can't''; non si sa mai, non si può mai dire, you never can tell // mi si dice che..., I have heard that...; gli si chiede troppo, it is asking too much of him // non si vive di solo pane, (prov.) man does not live by bread alone
    2 ( con valore passivante): la mostra s'inaugura il mese prossimo, the exhibition will be inaugurated next month; qui si producono ottimi vini, excellent wine is produced here; qui si parla inglese, English is spoken here // affittasi, vendesi appartamento, flat to rent, for sale
    3 ( con valore intensivo o pleonastico): si è mangiato un pollo intero, he ate a whole chicken; non sa quel che si dice, he doesn't know what he's saying; si sono venduti tutto, they sold everything up; si faccia gli affari suoi!, let him mind his own business!
    * * *
    (= Siena)
    * * *
    I [si]
    pronome personale maschile e sostantivo femminile

    si sta lavando le mani — he's washing his hands; (come pronome di cortesia)

    2) (tra due) each other; (tra più di due) one another

    si aiutano a vicenda — they help each other, one another

    affittasi, vendesi — for rent, for sale

    si dice che — it is said that..., people say that...

    qui non si fuma — no smoking here, smoking is forbidden here

    II [si]
    sostantivo maschile invariabile mus. B, si
    * * *
    /si/
     1 yes; sì, grazie yes please; certo che sì! yes, of course! "sei pronto?" - "sì!" "are you ready" - "yes, I am!"; "ti è piaciuto il film?" - "sì" "did you enjoy the movie?" - "yes, I did"; "sono stato in Tibet" - "ah sì?" "I've been to Tibet" - "have you?"; se sì (in caso affermativo) if so; dire (di) sì to say yes; fare sì con la testa, fare cenno di sì to nod
     2 (sostituisce una proposizione affermativa) credo di sì I think so; pare di sì it seems so; temo di sì I'm afraid so; tu non lo credi, io sì you don't believe it, but I do
     3 (in una alternativa) vieni sì o no? are you coming or not? un giorno sì e uno no every second o other day
     4 (rafforzativo, enfatico) un cambiamento sì, ma soprattutto un miglioramento a change, of course, but above all an improvement; ebbene sì, ho barato, e allora? ok, I cheated, so what? questa sì che è bella that's a really good one; allora sì che potrò lavorare in pace that's when I'll be able to work in peace; (concessivo) sì che mi è piaciuto, ma I did like it, but
     5 (al telefono) yes, hello
     6 sì e no ci saranno state sì e no dieci persone there were no more than o barely ten people; saranno sì e no due chilometri da qui it's about 2 kilometres from here
    II m.inv.
     yes; decidere per il sì to decide in favour; pronunciare il sì (sposandosi) to say "I do"; hanno vinto i sì the yeses o ayes have it
      una giornata sì a good day.

    Dizionario Italiano-Inglese >

  • 12 -Going on holiday 2-

    Travel Going on holiday 2
    Have you got everything? Hai preso tutto?
    Where's your passport? Dov'è il tuo passaporto?
    I've got my passport in my pocket. Il passaporto ce l'ho in tasca.
    Don't forget the tickets. Non dimenticare i biglietti.
    I haven't got a ticket, I booked online. Non ho il biglietto, ho prenotato online.
    Are you ready to go? Sei pronto per andare?
    Yes, just about. Sì, quasi.
    I'll just check all the windows and doors. Voglio solo controllare un attimo tutte le finestre e le porte.
    What about the cat? E il gatto?
    A friend of mine is going to come round and feed the cat. Una mia amica verrà qui a dare da mangiare al gatto.
    I think we can go now. Credo che ora possiamo andare.

    English-Italian dictionary > -Going on holiday 2-

  • 13 ♦ call

    ♦ call /kɔ:l/
    n.
    1 grido; invocazione; richiamo; chiamata; voce: a call for help, un grido (o un'invocazione) di aiuto; the call of the sea, il richiamo del mare; Give me a call when you're ready, chiamami (o dammi una voce) quando sei pronto; This is the last call for Flight Z 87, ultima chiamata per il volo Z 87; (teatr.) This is your five minute call, in scena tra cinque minuti
    2 ( di uccello) verso; grido; richiamo
    3 appello; invito: a call for action, un invito ad agire; a call for order, un invito all'ordine; a call to strike, un appello allo sciopero; a call to free the hostages, un appello per la liberazione degli ostaggi; to put out a call for st., diramare un appello per qc.
    4 richiesta; domanda: a call for reforms [for a pay rise], una richiesta di riforme [di aumento salariale]; (fin.) call for funds, richiesta di fondi; There is little call for this kind of article, c'è poca richiesta per un simile articolo
    5 telefonata; chiamata: telephone call, chiamata telefonica; telefonata; to make a call, fare una telefonata; DIALOGO → - Showing guest to room- If you want to make external calls, dial 0 for the line, se volete effettuare chiamate esterne, premere 0 per avere la linea; to return sb. 's call, telefonare a q. ( in risposta a una sua telefonata); to take a call, prendere una telefonata; rispondere (al telefono); DIALOGO → - Refusing a call- I don't want to take that call right now, non voglio prendere la chiamata adesso; I have a call for you, c'è una telefonata per te; I got a call from Tom yesterday, ieri mi ha telefonato Tom; I'll give you a call tomorrow, ti chiamo (o ti telefono) domani; local call, chiamata (o telefonata) urbana; hoax call, falso allarme telefonico
    6 ( anche leg.) convocazione; chiamata: a call to the Palace, una convocazione del sovrano; The ambassador received a call to the Foreign Office, l'ambasciatore è stato convocato al Ministero degli Esteri
    7 vocazione; chiamata: his call to be a missionary, la sua vocazione a fare il missionario
    8 (in frasi neg. e interr.) bisogno; motivo: There's no call to shout, non c'è bisogno di gridare (o di alzare la voce); Is there any call for me to worry?, c'è motivo che io mi preoccupi?
    9 visita (spec. ufficiale o professionale); to pay a call on sb., fare visita a q.; The doctor is out on a call, il medico è fuori per una visita; (med.) house call, visita a domicilio
    10 (ferr.) fermata, sosta
    11 (naut.) scalo: port of call, porto di scalo
    12 (mil.) adunata: to sound the call, suonare l'adunata
    13 ( in albergo, ecc.) sveglia: I asked the night porter for a five o'clock call, chiesi al portiere di notte di darmi la sveglia alle cinque
    14 ( caccia) richiamo: a duck call, un richiamo per anatre
    18 ( Borsa) = call option ► sotto
    19 (comput.) chiamata ( a una procedura, ecc.): call instruction, istruzione di chiamata
    20 ( sport) richiamo, segnalazione, fischio ( dell'arbitro); ( anche) decisione dell'arbitro
    21 (a bridge) (turno di) chiamata: Whose call is it?, a chi tocca chiamare?
    call-bell, campanello □ call bird, (uccello da) richiamo □ (GB) call box, cabina telefonica □ call boycallboy □ call centre ( USA call center), call center ( fornitore di servizi, tramite telefono) □ ( banca) call deposit, deposito a richiesta ( non vincolato) □ (telef.) call diverter, commutatore telefonico □ (leg.) call for bids (o for tenders), (bando di) gara d'appalto □ call girl, (ragazza) squillo □ ( USA) call house, casa d'appuntamenti; bordello □ (org. az.) call-in pay, indennità di pronta disponibilità □ ( radio, TV, USA) call-in ( program), programma con telefonate ( del pubblico) in diretta □ (fin.) call letter, lettera di richiamo dei decimi □ ( radio, TV, USA) call letters, = call sign ► sotto □ ( banca) call loan, prestito (rimborsabile) a richiesta ( con il preavviso di 24 ore) □ call money, ( Borsa) denaro investito a brevissima scadenza; ( banca) = call loan ► sopra □ call note, richiamo ( di uccello) □ ( USA) call number, segnatura ( di libro di biblioteca) □ (eufem.) call of nature, bisogno fisiologico □ (leg.) call on guarantor, chiamata in garanzia □ (fin.) call on shares, richiamo dei decimi □ ( Borsa) call option, contratto a premio del compratore (o da pagare); (contratto) dont; opzione di dont (o d'acquisto) □ call-out, chiamata ( di riparatore, ecc.): call-out charge, (diritto di) chiamata □ (GB, antiq.) call-over, appello ( a scuola) □ (fin.) call premium, premio di rimborso (o di richiamo) □ (fin.) call price, prezzo di riscatto □ (fin., Borsa, GB) call rate, tasso di interesse passivo su denaro a richiesta □ ( radio) call sign (o call signal), segnale di chiamata; nominativo □ (leg., in Inghil.) call to the Bar, abilitazione all'esercizio della professione forense □ (mil.) call to quarters, ritirata □ call-up, (mil.) chiamata alle armi, ( di riservisti) richiamo; (i) richiamati (collett.); ( sport) convocazione ( di un giocatore) □ (mil.) call-up papers, cartolina precetto □ calls on one's time, impegni □ above and beyond the call of dutyabove □ at call = on call ► sotto □ to have first call on st., avere diritto per primo a qc. □ (telef.) free call, telefonata gratuita; numero verde □ (naut.) «no calls», «senza scali intermedi» □ on call, a disposizione, reperibile; ( di medico) di servizio, di reperibilità; (fin.: di titolo) pagabile a richiesta; esigibile a vista □ (leg.) on first call, in prima convocazione □ (teatr.) to take a call, essere chiamato alla ribalta □ within call, a portata di voce.
    ♦ (to) call /kɔ:l/
    A v. t.
    1 gridare; dire forte: Joan called my name, Joan ha gridato il mio nome
    2 chiamare (per attirare l'attenzione; per far venire, anche per telefono): I called her but she didn't stop, la chiamai ma lei non si fermò; He called me aside [to the window], mi ha chiamato in disparte [alla finestra]; to call the lift, chiamare l'ascensore; Shall I call you a taxi?, ti chiamo un taxi?; Call the police, chiama la polizia!
    3 telefonare; chiamare: Please call me at 6, telefonami alle 6, per favore
    4 svegliare; chiamare: What time would you like to be called in the morning?, a che ora vuole essere svegliato domani?
    5 convocare; chiamare; citare (leg.): I was called before the committee, sono stato convocato davanti alla commissione; to call a court martial, convocare una corte marziale; to be called to give evidence, essere chiamato a testimoniare; essere citato come testimone
    6 (al passivo) essere chiamato; sentire la vocazione
    7 indire; convocare; proclamare: to call a meeting, indire una riunione; to call an election, indire le elezioni generali; to call a strike, proclamare uno sciopero
    8 dare ( un nome) a; chiamare; mettere ( un nome) a: We're going to call her Lucy, la chiameremo Lucy; What are we going to call the new model?, che nome daremo al nuovo modello?
    9 chiamare (con un dato nome, titolo, ecc.): I was always called by my surname, venivo sempre chiamata per cognome; DIALOGO → - Arriving for a meeting- Please, call me Sheila, la prego, mi chiami Sheila
    10 (al passivo) chiamarsi; avere nome; (rif. a soprannome, ecc.) essere chiamato, essere detto; ( di libro, film, ecc.) intitolarsi, essere intitolato, avere come titolo: What's this thing called?, come si chiama questo?; DIALOGO → - Discussing books 1- What's the book called?, qual è il titolo del libro?; His friend was called Jasper, il suo amico si chiamava Jasper; King John, also called John Lackland, Re Giovanni, detto anche Giovanni Senzaterra
    11 definire; dire; chiamare: I wouldn't call him a close friend, non lo definirei un amico intimo; That's what I call a miracle, io questo lo chiamo (o per me è) un miracolo; She calls herself an artist, si definisce un'artista; dice di essere un'artista
    12 dare a (q. del…): He called me a cheat, mi ha dato dell'imbroglione
    13 ( sport: di arbitro, ecc.) dichiarare: to call the ball in, dichiarare buona la palla
    15 (fin.) richiamare ( un titolo)
    17 (comput.) chiamare ( una procedura, ecc.)
    B v. i.
    1 chiamare: I heard you call, ti ho sentito chiamare; Duty calls!, il dovere chiama!
    2 ( d'uccello, ecc.) emettere il richiamo; chiamare
    3 telefonare; chiamare: I'm calling about your ad, telefono per il suo annuncio; Where was he calling from?, da dove chiamava?; DIALOGO → - On the phone- Who's calling, please?, scusi, chi parla?
    4 andare; venire; passare; far visita; andare a trovare: Has anybody called?, è venuto nessuno?; The nurse called every day, l'infermiera passava tutti i giorni; to call at the bank, passare in banca; to call into the post office, passare all'ufficio postale; We called on our neighbours to see if everything was all right, siamo passati dai vicini per vedere se andava tutto bene
    to call sb. 's attention to st., richiamare l'attenzione di q. su qc. to call the banns, fare le pubblicazioni (matrimoniali) □ to call sb. 's bluffbluff (3) □ (fin.) to call bonds, riscattare obbligazioni □ (leg.) to call a case, chiamare una causa; fissare un'udienza □ (telef., USA) to call collect, fare una telefonata a carico del destinatario □ (aeron., trasp.) to call a flight, annunciare un volo □ to call a halt, dare l'alt; fermare □ to call into being, dar vita a; creare □ to call into play, chiamare in gioco; mettere in moto □ to call into (o in) question, mettere in dubbio □ to call it ( seguito da una cifra), fare…; Let's call it $100, facciamo cento dollari □ (fam.) to call it a day, aver lavorato abbastanza; fare punto (e basta); chiuderla lì: It's getting dark: let's call it a day!, si fa buio: chiudiamola qui; DIALOGO → - In a meeting- I think we'll call it a day there, credo che concluderemo qui □ to call it quits, considerarsi pari; chiudere la faccenda; chiuderla lì; ( anche) farla finita, lasciare tutto, chiudere: Take these ten pounds and let's call it quits, prendi queste dieci sterline e chiudiamola lì □ to call sb. names, insultare q. □ (fam. USA) to call the shots, essere quello che decide, che comanda; comandare □ to call a spade a spade, dire pane al pane; parlare chiaro □ to call to account, chiamare alla resa dei conti; chiedere conto a q. (di qc.) □ to call to arms, chiamare alle armi □ to call to mind, richiamare alla mente (o alla memoria) □ to call to order, richiamare all'ordine □ to call the tune, essere quello che decide, che comanda; comandare; dirigere la musica □ to call st. one's own, dire che qc. ci appartiene: The study was the only place I could call my own, lo studio era l'unico posto che potevo dire (o che fosse) veramente mio □ (leg., in GB) to be called to the Bar, essere ammesso all'esercizio della professione forense □ (leg., in GB) to be called within the Bar, essere nominato ► «King's (o Queen's) Counsel» (► counsel) □ (eufem. fam.) Don't call us, we'll call you, la chiameremo noi; le faremo sapere ( equivalente a una risposta negativa data a un candidato, un postulante, ecc.) □ ( radio) London calling, qui Londra.

    English-Italian dictionary > ♦ call

  • 14 ♦ roll

    ♦ roll /rəʊl/
    n.
    1 rotolo: a roll of cloth [of wallpaper], un rotolo di tela [di carta da parati]; rolls of flesh [of fat], rotoli di ciccia [di grasso]
    2 (fotogr.) rullino; rotolo: roll film, pellicola in rullino; a roll of film, un rotolo di pellicola
    4 (= bread roll) panino: a ham roll, un panino al prosciutto; roll and butter, panino con burro; Can I have a cheese and pickle roll, please?, mi dà un panino con formaggio e sottaceti, per favore?
    5 nei composti, per es.: jam roll, rotolo di pan di Spagna con la marmellata; swiss roll, rotolo di pan di Spagna ripieno ( di crema, marmellata, ecc.); spring roll, involtino primavera ( piatto cinese)
    7 ( di tamburi) rullo; rullio: a drum roll, un rullo di tamburo
    9 (naut., aeron., miss.) rollio; rollata
    10 elenco; lista; (leg.) ruolo (ad es., di cause), verbale: a long roll of heroes, una lunga lista di eroi; the roll of honour, il ruolo d'onore; the roll of saints, la lista dei santi
    12 (aeron.) frullo; vite orizzontale
    13 ondeggiamento; dondolio
    14 (mecc.) rullo; cilindro: finishing roll, cilindro finitore
    16 ( slang USA, Austral.) rotolo di banconote; mazzetta; ( per estens.) contanti, soldi (di q.)
    19 ( ginnastica) capovolta: a forward [backward] roll, una capovolta in avanti [all'indietro]
    20 (pl.) (mecc.) laminatoio: breaking-down rolls, laminatoio sbozzatore
    21 the Rolls, ( un tempo) l'Archivio di Stato; ( ora) l'Albo degli avvocati
    ● (autom.) roll-barrollbar □ (autom.) roll cage, scocca di protezione ( dell'abitacolo) □ roll call, appello: to have a roll call, fare l'appello ( nominale) □ ( slang, scherz.) a roll in the hay (o in the sack), sesso; zicchete-zacchete □ a roll of butter, una scaglia curva di burro; un panetto (cilindrico) di burro □ (archit.) roll moulding, modanatura convessa □ ( basket) roll pass, passaggio della palla rullata ( sul parquet) □ to be on a roll, (fam.) passare un periodo buono; andare a gonfie vele □ to call the roll, fare l'appello □ to strike sb. off the roll, radiare q. dall'albo (professionale); ( per estens.) espellere q. da un'associazione.
    ♦ (to) roll /rəʊl/
    A v. i.
    1 rotolare; rotolarsi: The ball rolled into the goalmouth, il pallone è rotolato in porta; The children were rolling on the grass, i bambini si rotolavano sull'erba; The egg rolled off the table, l'uovo è rotolato giù dal tavolo; to roll off the bed, rotolare giù dal letto
    2 ( di un veicolo) andare; muoversi: The train rolled into the station, il treno è entrato in stazione; The car rolled gently down the hill, l'auto scendeva a bassa velocità dalla collina; The cars rolled off the ferry, le macchine uscivano dal traghetto; Tanks were rolling along the streets of the city, dei carri armati percorrevano le strade della città
    3 ( della nebbia, del fumo, delle onde, ecc.) avanzare (ondeggiando): Mist rolled over the hills, la nebbia avanzava sulle colline; The smoke rolled away, il fumo si è disperso; The waves were rolling against the boat, le onde si infrangevano contro la barca
    4 (= to roll up) avvolgersi; avvilupparsi: to roll (up) into a ball, appallottolarsi, raggomitolarsi: The hedgehog rolled up into a ball, il porcospino si è appallottolato
    5 avvoltolarsi: Pigs like to roll in the mud, ai maiali piace avvoltolarsi nel fango
    6 to roll onto ( anche to roll over onto) girarsi: Roll onto your back, giratevi e mettetevi supini; She rolled onto her stomach, si è messa sulla pancia
    7 scorrere: Tears were rolling down her cheeks, le lacrime le scorrevano sulle guance; Rain rolled down the window, la pioggia scorreva sulla finestra
    8 (naut., aeron., miss.) rollare: The ship rolled heavily, la nave rollava a più non posso
    9 ( per estens.) camminare dondolandosi; barcollare; ondeggiare: He rolled down the street singing, barcollava lungo la strada cantando
    12 ( del terreno, del paesaggio) essere ondulato: The hills rolled on to the horizon, le colline si estendevano con il loro profilo ondulato fino all'orizzonte
    13 ( di apparecchi, cinecamere, telecamere, ecc.) cominciare a ronzare; essere (o entrare) in funzione: The cameras were rolling, le cineprese erano in funzione
    14 ruotare; roteare; ( di titoli su schermo) scorrere (dal basso in alto): The horse's eyes were rolling and he was sweating, il cavallo aveva gli occhi che roteavano e sudava
    15 (fam.) andarsene; muoversi; darsi una mossa (fam.): Let's roll!, diamoci una mossa!; Are you ready to roll?, sei pronto ad andare?
    B v. t.
    1 (far) rotolare: They rolled the tyre across the yard, hanno fatto rotolare la gomma attraverso il cortile; We rolled the car into the garage, abbiamo spinto la macchina in garage; ( hockey) to roll the ball back into play, rimettere in gioco la palla ( dal fallo laterale); ( golf) to roll in a putt, imbucare
    2 girare: They rolled him onto his back, lo hanno girato e messo supino
    3 arrotolare; avvolgere: to roll one's trousers above one's knees, arrotolarsi i calzoni fin sopra le ginocchia; to roll up a carpet, arrotolare un tappeto; to roll a cigarette, arrotolarsi una sigaretta; to roll a snowball, fare una palla di neve; to roll wool into a ball, fare un gomitolo di lana; Roll the dough into a ball, fate una palla con la pasta
    4 (far) ruotare; roteare: She rolled her eyes at us, ci ha guardati roteando gli occhi
    5 ( parlando) arrotare (la «r»): I can't roll my r's, non riesco ad arrotare la erre
    6 gettare, lanciare (i dadi): to roll a two, fare due (ai dadi)
    7 (aeron.) fare rollare ( un aereo)
    8 (tecn.) rullare; spianare con un rullo; cilindrare: to roll a road, cilindrare una strada; to roll a lawn, spianare un prato con un rullo
    9 (= roll out) stendere, tirare ( la sfoglia: con un mattarello)
    10 (mecc.) rullare
    11 (metall.) laminare: rolled gold, oro laminato
    13 (ind. tess., ind. cartaria) calandrare
    ● (fam.: a teatr., ecc.) to roll in the aisles, rotolarsi (o sbellicarsi) dal ridere □ (fam.) to roll one's own, farsi le sigarette da sé □ to roll with the punch (o with the punches), ( boxe) accompagnare il colpo (o i colpi), assorbire il colpo con un arretramento o uno spostamento; (fig.) fare buon viso a cattiva sorte, adattarsi □ ( di cose o persone) rolled into one, combinati; fusi insieme: a sports programme and a quiz show rolled into one, un programma sportivo combinato con un quiz □ to be rolling in money (o in it), avere soldi a palate; nuotare nell'oro □ (fig. fam.) to start (o to set) the ball rolling, dare l'avvio ( a un progetto, un lavoro); dare inizio a qc.; iniziare qc. □ (fam. ingl.) Roll on Sunday!, non vedo l'ora che arrivi domenica! □ (prov.) A rolling stone gathers no moss, pietra mossa non fa muschio; chi non mette radici non fa fortuna.

    English-Italian dictionary > ♦ roll

  • 15 ♦ yet

    ♦ yet /jɛt/
    A avv.
    1 (in frasi neg.) ancora; finora; per ora: He hadn't come yet, non era ancora arrivato; It is not yet time, non è ancora il momento; è troppo presto; «Are you ready?» «No, not yet», «sei pronto?» «no, non ancora»
    2 (in frasi afferm., lett. o quasi) ancora; tuttora; perfino: I have yet to complete the report, devo ancora finire la relazione; You must work yet harder, devi lavorare ancora di più; yet another mistake, ancora un altro (o l'ennesimo) errore; yet more rain, ancora altra pioggia
    3 (in frasi interr.) fino a questo momento; già: Has the post arrived yet?, è già arrivata la posta?; DIALOGO → - Petrol- Are we there yet?, non ci siamo ancora?
    B cong.
    ( spesso and yet, but yet) pure; eppure; tuttavia; però; ma: It is hardly credible, yet true, è quasi incredibile, ma è vero; I offered him some more, and yet he wasn't satisfied, gliene offrii ancora e tuttavia non fu soddisfatto
    yet again (o yet once again, yet once more), ancora una volta; un'altra volta □ as yet, finora, sinora; (con il verbo al passato) fino ad allora, fino a quel momento: Everything has [had] worked all right as yet, tutto finora è [fino a quel momento era] andato bene □ just yet, proprio ora; subito: I cannot come just yet, non posso venire proprio ora □ nor yet, e neppure; e nemmeno; e neanche: He did not come, nor yet write, non è venuto e non ha neanche scritto □ He may win yet, fa ancora in tempo a vincere.

    English-Italian dictionary > ♦ yet

  • 16 carraca

    Carraca, esta palabra significa comida, condimentos, conquivus, (cacharros, etc.). Cuando íbamos a llindiar el ganáu disdi ‘l albiar el díe fasta que tapecíe, (cuidar el ganado desde el amanecer hasta el oscurecer) llevábamos la carraca nun cabaxín, zurronacu ou cestacu cualquier, (cabás, zurrón o cualquier otro cesto). Les muyeres baxaben al merquéu ya traíen la carraca pa toa la xemana. (Las mujeres bajaban al mercado y compraban si tenían dinero lo que se necesitase en la casa para toda la semana). Carraca tamén lu ye lu que lus vaqueirus chebaban disdi la teixá pal sou cabanu ou corte de la braña, dunde a lu mexor taben un fatáu de díes xin baxar a l'aldina, per ístu llebaben un carracáu de couxes que ñecexitaben. (Carraca también es lo que los vaqueros llevaban desde casa para sus cabañas del puerto, las morteras o los prados, donde a lo mejor estaban unos días sin bajar a la aldea, por esto subían muchas cosas que necesitaban y no todas eran para comer sino que algunas eran simples cacharros, o humildes mantas. Y carraca hermanos míos, era la que hacía mi madre y todas las vindas de los rojos, cuando todas las semanas iban a visitar a sus maridos a la Cárcel Modelo de Oviedo, como por las demás no puedo hablar, porque yo no sé cómo se arreglaban las pobrecitas, aunque me supongo que muchas hasta pidiendo limosna, sí que lo puedo hacer de mi madre, que todos los martes era el día que tenía de comunicación, y ella nunca sabía si le iba encontrar vivo, porque por aquellos tiempos fechus de llágrimes ya xufriencies, tous lus díes na carxel d'Uviéu achuquinaben cambrionáus enteirus de xóvenes astures y'anxina d’ista maneira tan achuquina, encalducá per prexones xin concencia, nin dinidá nin «Xusticia Humana», fexérun bon amagüestu de toes les xuventúes roxes d'Asturies, ya les pouques que nun achuquinarun llantárunlas nus batallones de trabayadores, dunde munchus morrierun achindi fartus de fames, de llatigazus ya vexaciones, ya lus oitres que xuerti tubieren de golguer pa la sou teixá, fexérunlu mamplenáus d'amollexíes que per mor d'echus tamén fatáus morrieron. Falaba you que carraca yera lu que miou má le chevaba ‘l miou pá tous lus martes a la carxel, que you nun séi lu que yera, perque na nuexa teixá nun había esconxolancia de nagua, peru lu que fora écha llantábalu tou nuna fardelaca, ya colaba na xuntura d'oitres muyeres de l'allina camín d'Uviéu tres ou catru gores endenantes qu’almaneciera, pos teníen qu'espatuxar alrreór de cuarenta quilómetrus andandu ya oitres tantus pa la regolguía, pos entoncenes nun valía faer el auto-stop que güéi se fae, perque tous lus cambriones ya coches cuaxi yeren millitares, y'angunus oitres yeren de lus drechistes, ya lus roxus nun teníamus namái que goxetáus mexeries, ya manegáus de miéu ‘l nuexu hermenu ‘l venceor, perque lus nuexus homes morrieran lluchandu nel frinti, ya lus oitres taben arretrigáus per les cárxeles dunde poucu a poucu lus achuquinaben ou lus esclavizaben nus batallones de trabayaóres, anxina yera que tou Asturies taba xemada de viudes, de vieyus ya de guaxiquinus güerfaninus, que tous nuexóitres, viétchus, muyeres ya nenus de lus roxus, díbamus ser esclavizáus inhumanamente baxu 'n enfernal xugu que nun nus dexaba más llibertá que la que nel xuenu cheldábamus. —Ya n'agora vou xebrame del trabayu d'enfilerar pallabres p'encalducalus cuamigu dientru d’ista hestoria dou tán lus raigones ya l'escola de nuexes costumes ya llingua. TRADUCCIÓN.—Por aquellos tiempos hechos de lágrimas y de grandes sufrimientos, todos los días que el Hacedor alumbraba, en la cárcel de Oviedo asesinaban camiones enteros de jóvenes astures, y así de esta manera tan despiadada y asesina, llevada a cabo por personas sin conciencia, ni dignidad ni ninguna clase de «Justicia Humana», llevaron a término casi el total exterminio de las juventudes rojas de Asturias, y las pocas que no asesinaron, las esclavizaron en los famosos batallones de trabajadores, donde muchos allí murieron hartos de hambre, de vejaciones y latigazos, y los pocos que tuvieron la suerte de volver a sus hogares, lo hicieron llenos de enfermedades que por mor de ellas también murieron bastantes. —Decía yo que carraca también era lo que mi madre le llevaba todos los martes a mi padre a la cárcel, que yo no sé lo que pudiera ser, porque en nuestra casa no había ninguna cosa de nada, pero lo que fuese ella lo metía dentro de una saca y marchaba en unión de otras mujeres de la aldea camino de Oviedo tres o cuatro horas antes que amaneciese, pues tenían que caminar alrededor de cuarenta quilómetros y otros tantos de retorno y todos los hacían andando, pues no servía hacer el auto-stop que hoy se hace, porque todos los camiones y coches casi eran militares, y algunos otros que había eran de los derechistas, pues los izquierdistas no teníamos nada más que grandes cantidades de miseria, así como de miedo a nuestro hermano el vencedor que jamás se portó nada bien con nosotros, porque nuestros hombres habían muerto en el frente, y los otros estaban presos en las cárceles, donde poco a poco les iban asesinando, o los esclavizaban en los campos de concentración o batallones de trabajadores, así era que toda Asturias estaba sembrada de viudas, de viejos y de niños huérfanos, que todos nosotros, viejos, mujeres y niños de las izquierdas, íbamos a ser esclavizados inhumanamente bajo el infernal yugo que no nos dejaba más libertad que la que en el sueño hacíamos. Y ahora me voy alejar del trabajo de poner en orden las palabras en este diccionario, para llevarles conmigo a los lugares donde yo he aprendido la dulce lengua de Asturias, que no es otro lugar que la escuela donde vivían las raíces y costumbres de Nuestro Pueblo, pues no se pueden buscar nuestras falancias en ningún otro lugar ni parte. Por esto les digo ahora, que si yo no hubiese vivido tan simple, sencilla, pobre, miserable, esclavizadora y dentro de la más natural de la «RAIZ ANCESTRAL DE ASTURIAS», ni yo ni nadie podría legarle a mi «AMADA ASTURIAS» ni a sus «HIDALGAS GENTES», la documentación pura, natural y sencilla que pueda tener este diccionario, porque desde estas mis simples líneas y mirándome muy mucho de lo que digo, les afirmo que hay muy poco fiable por no decir nada, escrito de nuestras costumbres y lengua. «DIES D’ENFERNU» (DÍAS DE INFIERNO) —Yera you 'n zaragoletu, 'n guaxiquín, un nenacu, 'n rapacín (un niño de unos ocho años), cundu la ñecexidá más prieta me fexera depriender lu que yera ‘l dollor, la xufriencia, l’inxusticia, lu pior qu'el Home pudiés encaldar d'enría lus sous xemexantes, you yera ún de lus miles d'anxelinus de miou Tierra que diba faer arroxaúra nel vivir d’ enfernu que m’aguardaba. Xin, fatáus de güérfanus lu mesmu que you, que güéi nel díe xuntu con nuexes familias, ente fius, ñetus, ya tou ‘l andecháu de parantela xomus más de la metá de les xentes d'Asturias, peru naquechus tempus d'achuquinus ya inxusticies nun yéramus namái qu'unus guaxiquinus dexamparáus de la man del Faidor ya del Home, ya tous noxóitres tubiemus que catanus el xustentu de fatáus de maneires diferientes, la miou per exemplu fó'ísta. COLOCOUME MIOU Má de cabrieru na teixá d'un amu baldrayu y atuñáu, llabascu y'achuquín tan solu per que me diera de comer ya me vistiera dalgu, peru ‘l condenáu matábame de fame, ya la vestimenta que punxu d'enría ‘l miou llombu conxistía nun calzáu que la metá ‘l tempu espatuxaba con las patas arregañás, apaxiétchau con unus fatucus tous esgacicáus que per tous lus lláus diben les mious carnis al entestate, acaniláes per el callor ya ‘l fríu en tou ‘l tempu. —Tenía yo aproximadamente ocho años de edad cuando me asesinaron a mi padre, y me recuerdo con toda exactitud cómo la ley de aquel tiempo llevó a cabo tan imperdonable, deshumanizante y vandálica felonía. —Nuna nuétche (una noche) llegaron a la casa de unos tíos míos que en mi aldea vivían y donde mis padres y yo nos refugiamos al término de la guerra en Asturias cuatro desalmados, cuatro bandoleros, cuatro inmundicias humanas, que escudados tras de sus armas empuñadas, representaban l'enñordiada Lley (LA SUCIA LEY) que en aquellos tiempos a la Justicia traicionaba, cuento yo, que aquellos cuatro merucus (gusanos), atemorizando e insultando a toda mi familia, detuvieron a mi padre, le amarraron como a la bestia que se lleva al matadero y se lo intentaron llevar de la casa, sin que mis tíos, (y la cosa no era para menos), intentasen pronunciar asustados como se encontraban ni la más mínima palabra de súplica o protesta. Pero mi madre no les secundó, sino que bravamente intentó defender al sou home (a su marido) no sólo con la palabra, que mi madre la tenía d'aguxa lu mesmu qu’un bon obreiru (de afilada lo mismo que un buen aguijón), sino que temerariamente se abalanzó sobre ellos y fuele preciso a uno de aquellos cobardes y desalmados representantes de la deshumanizada ley que corría en aquellos tiempos, de propinarle varios golpes con la pistola, dejándola mal herida y ensangrentada, tirada en el suelo con el conocimiento perdido. Mientras que aquellos bandidos, se llevaban a mi padre sin permitirle que de mi se despidiera, y tan solamente le he podido ver por última vez, tres les rexes de la cárxel d'Uvieu 'n die 'ndenantes que l'achuquinaren. (Detrás de las rejas de la cárcel de Oviedo, un día antes de que le asesinasen). Pronto mi madre y yo, llenos de la más desolante de las tristezas, y vestidos con el traje de las más indigentes miserias y pobrezas, nos marchamos de la casa de mis tíos y nos asentamos en la abandonada, vieja y destartalada casa de mi abuela. Y sin muebles, ni nada, los dos juntos, como grandes e indomables luchadores que hemos sido siempre, dimos comienzo sin desfallecer ni un momento, a la dura lucha por la vida, sin que nadie jamás nos ayudara. Empecé a ganarme la vida como pastor, a la corta edad de que cualquier niño sólo pensaría en jugar, comer cuando tuviese hambre y recibir de continuo montones de caricias y de amor, yo sin embargo, a pesar de no poseer nada de todas estas maravillosas cosas, era en extremo a mi manera feliz. Marchaba todas las mañanas con mi ganado al monte, donde permanecía todo el día, tan sólo con la compañía que me brindaba mi fiel y siempre por mí con cariño recordado Pelayu, que era un perro, de una inteligencia y sentimientos, que más bien que un chuchu (perro), parecía aquel singular animal un ser humano. Luego por las tardes, cuando el sol se escondía por detrás de las altas cumbres, retornaba feliz a la aldea, siempre lleno de contentura, cantando las más de las veces, amenizado por el potente tañir del zumbiétchu (cencerro) que llevaba colgado al cuello el semental del rebaño. Una mañana como tantas otras me encaminé con mi rebaño al monte y seria como a la media tarde cuando a la entrada de una cueva que se asentaba en un lugar casi inaccesible me encontré medio enterrado con las piedras y la escasa tierra que hacían la reducida plataforma de la portada de la caverna, un pequeño aro de oro, yo he tenido por así decirlo desde mi infancia la inmensa suerte de poseer una imaginación tan inmensamente dislocada, que por tal solían decirme mis vecinos, que era yo el rey de las mentiras, así como el más hábil inventor de endemoniados cuentos. El caso era, que aquel misterioso anillo abandonado a tan larga distancia de mi aldea y en lugar tan argutosu (estrecho, alto, inaccesible), hiciéronme presto pensar, que aquella joya no había llegado a tal escondrijo por sí sola, sino que desde luego alguien la había traído. En el momento mi imaginación desbordante de una alegría que no encontraba un fin para frenarla, comenzó a fomentar sin el menor titubeo la fantástica idea de que en el interior de aquella caverna debía de encontrarse un tesoro de preciosas joyas y valorativas monedas, y quién le había ocultado sabe Dios cuando, seguramente habría perdido aquel anillo que por casualidad yo encontrara. Así pues, ya firmemente convencido, adentreme temerariamente sin el menor temor por la angosta cueva con las miras de apoderarme de aquella inmensa riqueza que según mi soñativa imaginación me había hecho comprender que en su interior me estaba aguardando. Pero aquel día no conseguí mi feliz propósito, porque era la caverna más larga de lo que había pensado y la oscuridad que en ella reinaba me hacía ciego de toda luz. Senteme en su entrada muy desilusionado al no poder lograr lo que había soñado, pero pronto mi mente empezó a dibujarme mil dispares tesoros, pues por el rastro que descubriera seguramente que dentro de la gruta se hallaría escondida alguna chalga (tesoro) guardado con toda seguridad por una Xana, Xumiciu, Trasgu o Culiebru (dioses de la Mitología asturiana), pues al decir de el abuelo Nicomedes cuando en las largas veladas de los inviernos y sin jamás interrumpirle con grande contentura le escuchábamos las leyendas, cuentos e historias que él lúcida y socarronamente nos contaba, afirmándonos siempre que eran tan ciertos sus relatos, como que todos habíamos nacido para morir. Y cuando hablaba de las chalgas aseguraba que tal o cual vecino, morador de esta o aquella aldea, se había hecho de la noche a la mañana rico al haber encontrado una chalga. También afirmaba poniéndose muy serio alegando unos razonamientos que convencían, que las montañas que rodeaban nuestra aldea había muchas chalgas escondidas, que fueron sepultadas hacía muchos siglos por los invasores moros, que al ser vencidos por los astures y al no poder huir con tan pesados tesoros, los ocultaban en las montañas con las miras de poder regresar algún día a desenterrarlos. Como cuento, yo en aquellos momentos vivía alborozado, sumergido en una disloca alegría al saberme ya dueño de aquella incontable riqueza, haciendo que mis inocentes ojos sonriesen felices inmersos en la imaginativa dicha de poder muy pronto liberar a mi madre de la pobreza y quitarla del agobiador trabajo que faenaba trabajando en los eros de los vecinos de estrella a estrella por un miserable sueldo andechandu (en cuadrilla) todos los días. Y así pensando todas las dichas que mi infantil mente podía imaginar, rodeado por el sepulcral silencio que envolvía la grandiosidad de las montañas, rasgado de vez en cuando por el potente y agudo graznido que desde los peñascos más inaccesibles, o desde los infinitos espacios donde con majestuosidad planeaban, lanzaban las útres (águilas), que con ojos inquisitivos oteaban con hambrientas intenciones los escabrosos riscos y las empinadas fistietchas (pequeños valles encajonados entre las peñas), con la esperanza achuquinante (asesina) de poder atrapar con la rapidez del rayo, algún recental que se hubiese xebrau (apartado) de su madre. También aquel silencio que invitaba a la meditación era con más continuidad cortado, por el dinámico tañir del zumbiétchu (pequeño cencerro) que colgaba del brioso cuello del macho cabrio, conductor y semental del rebaño. Como cuento, allí permanecía ensimismada mi mente en el soñar despierto, fabricando sin trabas de la misma nada, las más disparatadas y fabulosas dichas, que harían la felicidad de mi madre junto con la mía. Llegó casi sin enterarme el atapecer del día (al oscurecer) y fue entonces cuando desperté con prisa del maravilloso soñar donde vivía, y raudo, con agilidad y destreza que hoy al recordarla me causa dicha, reuní en pocos minutos mi rebaño, ayudado con eficacia por Pelayu, mi fiel, obediente, valiente y amaestrado perro, que no le tenía miedo a nada ni a nadie si exceptuamos al siempre mal intencionado y vigoroso macho semental de la reciétcha que yo allindiaba (ganado menudo que yo cuidaba). Y cuando ya el día agonizaba entre las negras vestimentas de la noche, entré en mi aldea conduciendo orgullosamente mi rebaño. A la entrada del pueblo sentado plácidamente fumándose un cigarro, estaba esperándome mi amo preocupado por mi tardanza y acercándose a mí, con palabras desaforadas e insultantes, a la par que me reprendía con dureza, me preguntaba el por qué me había demorado tanto. No recuerdo lo que le contesté, ni la historia que le largué, lo que si sé, que no se creyó de ella nada, pues todas las gentes que me conocían bien sabían, que yo confundía la verdad con la mentira haciendo con entrambas las más inverosímiles y dislocadas historias. Sin embargo, lo que yo sabía muy bien, era que aquel miserable labriego de mi aldea, que tenía la desgracia de cuidarle sus ganados, por la triste desgracia de una comida infame y peor vestimenta, no le incomodaba en absoluto que yo llegase tarde o que me despeñara desde un serapu (peña) y me escontonara la motchera (rompiera la cabeza), lo único que le preocupaba al condenado, era que llegasen a su teixada (casa) sanos y fartus (hartos) todos sus ganados. Al siguiente día bien de mañana como de continuo hacía, con un poco de sabadiegu (chorizo malo) un cantezu (pedazo) de pan moreno y cuatro manzanas dentro de mi zurrón, salí de mi aldea afaluchandu (arreando) el rebaño, y con aquellas miserables viandas que llevaba en mi morral, tenía que aguantar todo el día en el monte corriendo sin descanso tras aquella veceira (rebaño) de cabras. Lo que no sabía el condenado de mi amo, era que yo siempre que tenía hambre, le ordeñaba sus cabras dentro de una lata que tenía escondida en la montaña, hartándome tanto yo como mi fiel Pelayu de espumosa y fresca leche hasta el golifar (hastiar). Si el bastruya (zafio) de mi amo tan sólo hubiese sospechado que le mucía (ordeñaba) sus cabras todos los días, me hubiera eszarapau (despedazado) mi frágil cuerpo con un mamplén de cibiétchazus (con muchos palos). Espatuxaba (caminaba) yo muy contento aquella mañana, quizás lo hiciera mucho más feliz que nunca, arreaba mi rebaño con desacostumbrada prisa, porque ansias locas tenía de llegar a la montaña, para entrar de nuevo en la misteriosa cueva, pues ahora ya no tendría problemas con la obscuridad que en ella reinaba, ya que conmigo llevaba una caja de cerillas y un pequeño candil que le había arrapiegáu (hurtado, quitado) de la corte (cuadra, establo) a mi amo, y con aquella luz, sería capaz de bajar hasta las mismas entrañas de la tierra, si a tal lugar la caverna se extendiese. Aquella noche había dormido poco y soñado mucho, tanto despierto como dentro del desvelado sueño, y tanto de una manera como de la otra, siempre llegaba a la conclusión, de que dentro de aquella para mi misteriosa gruta se ocultaba una fabulosa chalga de la que iba ser yo su señor y dueño, y cuando tal me sucediese, ya no sería yo más criado de ningún rapiegu (zorro) amo, ni tampoco a mi querida madre se le encallecerían jamás las manos, efectuando esclavizantes trabajos, nunca para el prójimo bien servidos y siempre por él peor pagados, ni se partiría sus costillas refrescándose el cansancio en su propio sudor por las fincas de nuestros vecinos, por donde se arreventaba todos los días del año, por la mezquina soldada de una fuente no muy grande de harina, un cesto de patatas, o cualquier otra vianda que mitigase el enorme fantasma del hambre, que desde el fin de la guerra se había enseñoreado de nuestro indigente char (lar), que nos obligaba despiadadamente a unos ayunos tan sumamente raquíticos, que el día que comíamos algo en traza (algo mas), tal parecía que habíamos cometido un grave pecado. Cuando yo fuese dueño de aquel tesoro, (abanzaba seguido de Pelayu arreando con prisa los ganados camino de la argutosa «abrupta» montaña, a la par que imaginativamente iba pensando), compraremos una casa decente, buenas fincas y mejores ganados, y entonces nuestros vecinos nos mirarán con respeto, y no nos tratarán con el menosprecio y la esclavitud a que ahora nos someten. Llegué al fin hasta el lugar que por costumbre tenía de enveredar el ganado para que a su aire subiesen guareciendu (pastiando) como siempre hacían hasta llegar al final de la tarde que era cuando el rebaño solía alcanzar lo más alto de la montaña. Pero aquel día no seguí yo al redil como siempre hacía, sino que me adelante a él corriendo sin el menor cansancio laderas arriba, hasta que por fin sudoroso y galopante en la alegría llegué a la vecindad de la caverna. Pude comprobar sonriente a la par que cariñosamente acariciaba a Pelayu, cómo éste me miraba contrariado al ver que yo por primera vez había cambiado todos mis cotidianos hábitos. Ya que siempre nada más llegar al monte y dejar a las cabras a su albedrío pastiando, nos sentábamos en el lugar acostumbrado, y zampábamos sin pérdida de tiempo a partes iguales como buenos compañeros, la miserable comida que nos había servido nuestro amo. Después jugábamos incansablemente en mil dispares entretenimientos hasta quedarnos rendidos, y muchas veces tras de nuestros juegos, los dos juntos abrazados nos quedábamos profundamente dormidos y al despertarnos sino avistábamos el rebaño, corríamos alocados por la preocupación, por entre los abruptos riscos, y las espinosas malezas hasta lograr encontrarlo. Después otra vez gozosos retornábamos a nuestros juegos, o yo me quedaba mirando a las montañas ensimismado pensando, mientras que Pelayu se entretenía cazando grillos, u otros insectos, y otras veces con sus blancos y poderosos colmillos recorría con rabia su pelambrudo cuerpo, diezmando la cabanada (rebaño) de pulgas y otros parásitos que con su sangre se alimentaban. Como cuento, aquella mañana mi fiel Pelayu me miraba preocupado, pudiendo yo observar en sus vivarachos, picarescos e inteligentes ojos, una recriminación que me estaba haciendo, por su forma de ponerme sus fuertes patas en mi pecho, a la vez que me lamía entre pequeños y cariñosos ladridos mi rostro. Si con sus ladridos pudiese hablar mi lenguaje, seguramente que me diría. —No seas un iluso soñador, mi más querido y preciado compañero, no llegues con tu fantástico pensamiento hasta el extremo de acariciar ni tan siquiera cuanto te has imaginado. Comámonos con la alegría de que hacemos gala todos los días, esa mezquina comida que nos da nuestro despreciable amo, y juguemos con la inocente felicidad de siempre, ya que éste será el más grande tesoro que jamás podrás superar en tu vida. ¿Dónde podrás hallar una riqueza que se pueda comparar a la natural y sencilla felicidad que hoy gozas, aunque ésta se haga su camino dentro de la gran pobreza que te acompaña? Pero hoy yo sé fijamente, que aunque mi perro pudiese hablar, haciendo que en tal momento me asustase al presenciar tan grande milagro, y me dijese que no entrase en la cueva, porque lo que dentro de ella iba a encontrar sería mi propia muerte, la verdad es, que ni al mismo Faidor (Dios) en aquellos momentos yo no obedecería, y así de resuelto, encendí el candil, y sin el menor asomo de miedo, ya que la ilusión y la alegría que poblaban mi espíritu en aquel encaldar (hacer) eran tan inmensos, que empequeñecían hasta el ignoro cualquier otro sentimiento. Adentreme en la cueva que era iluminada tenuemente con la pobre luz que el candil despedía, siempre acompañado de Pelayu que tras de mí, el muy tuno de mi aventura se reía, no era larga la caverna, pues a treinta metros no alcanzaría, y cuando llegué al final, no encontré ni las Xanas, ni los Trasgus ni Xumicius, ni la chalga, preciado tesoro que yo perseguía, sólo había muchos cascos de avellanas y de nueces, algunas latas de conservas ya vacías, unos trapos manchados de sangre, unas mantas viejas y apoyadas en la rocosa y húmeda pared de la cueva, había varias armas de fuego que pronto me hicieron olvidar la riqueza que en un principio había imaginado que allí me aguardaría. Por primera vez en mi vida iba a tener juguetes, auténticos juguetes de verdad de los que usaban los hombres para asesinarse vilmente al igual que hacen los lobos cuando por su cuenta cogen un apacible rebano de ovejas. Dejé el candil en el suelo y elegí entre todas aquellas armas una brillante escopeta, lleno de contentura me senté encima de aquellas mantas y empecé a maniobrar con aquel peligroso juguete, yo sabía cómo se manejaba supuesto que mi amo tenía una escopeta muy parecida y le había visto limpiarla y cazar con ella algunas veces, durante algún tiempo estuve jugando con ella, de una canana que allí había saqué dos cartuchos que metía y sacaba dentro de su recámara, yo me creía en aquellos mis felices instantes el más grande cazador del universo. Pelayu que ya se había cansado de husmear por todas las partes y no habiendo encontrado nada donde llancái el diente (hincar) se tumbó en el suelo frente a mi mirándome sonriente y burlonamente, (porque aunque ustedes no lo crean, yo sé que los chuchos saben sonreir). Enojeme de Pelayu al ver como tan descaradamente se mofaba de mí, por eso encañonele con la escopeta con ánimo de amenazarle, pero cambió Pelayu de gesto rápidamente, levantose con rapidez del lugar donde estaba achucáu (costado), enseñome los clientes ladrándome muy enfadado y a la velocidad del rayo salió de la cueva, quizás porque el inteligente animal presentía, de que alguna desgracia iba a lleldar (hacer) yo con aquel mortífero artefacto, y no quería ser él quien primeramente la recibiese en su cuerpo. Aun permanecí algún tiempo en la gruta jugando a mi manera con las armas, y solamente cuando el candil por su guiños me hizo comprender que su luz ya se le estaba escosando (terminando), salí de la caverna con la escopeta en una mano, dos cartuchos en su recámara y el candil en la otra. En el exterior Pelayu correteaba detrás de los grillos y las camporinas (mariposas) al parecer ya libre de todo enfado. Ya cansado de jugar dejé la escopeta en el suelo y senteme tranquilamente al lado del zurrón, y en cuanto mi perro vio que ya había abandonado el arma, vino corriendo hacia mí, moviendo la cola y sonriéndome amigablemente. Allá abajo en la mitad del valle pude ver a mi rebaño cómo subía espenandu (comiendo) los pochitcus (enanas encinas), y yo de nuevo me volví a sentir feliz y contento a pesar de no encontrar la chalga que tanto con su riqueza había soñado e ideado. Comimos a hora desacostumbrada mi perro y yo aquella pobreza de comida, y tras de jugar un rato, él se quedó adormilado y yo comencé a pensar de quién serían aquellas armas. No me cabía la menor duda de que aquel arsenal de armas debía de ser de los fugáus (huidos), seguramente que eran de aquellos cuatro rapazones (mozos) que se entregaran a los soldados que estaban destacados en mi aldea. Yo los había visto en el cuartel que los militares tenían que era en la escuela de mi aldea, un amplio edificio que fuera regalado a la parroquia por unos indianos del chugar (lugar) que retornaran de las américas con la corexa betchá de cuartus (con la cartera llena de dineros). Recuerdo que aquel día que yo los vi, un soldado que de seguro sería el barbero, les estaba cortando el abundante pelo que lucían, y uno de los rapazus le dijo sonrientemente al militar. ¡No hace falta que te molestes mucho camarada, pues cuando un día de estos nos trasladeís a la cárcel de Oviedo, allí lo más seguro es que nos rebanen el pescuezo! EL MACHO CABRÍO Güelgu coyer el filu dóu d'endenantes m'enduébitchaba algamiandu na miou motchera alcuerdancies de cundu you yera guaxe, ya comu tóus non se puén cuntar per filera, per ísu xebreme d'aquín, pa dir p'acuchá, perque toes les couxes tienen la sou xaceda, ya non la quixéramus cataye nuexotrus. (Volviendo coger el hilo de los aconteceres que anteriormente en mi cerebro se barajaban dentro de las añoranzas de mi niñez, y como todos estos acaeceres no se pueden relatar en hilera, por eso me marché de éste, para ir al de más allá, que es de donde vengo ahora, porque todas las cosas tienen su propia postura, y no la que quisiéramos darle nosotros). Y aunque parecía que me había perdido por estar tan llargu lonxe (tan largo lejos) la verdad es que yo no pierdo el tiempo adornando los hechos que no deben de ser adornados, nin fiéndume en xebraures que van esfaese 'n probeces, perque 'l que non ye llicenciáu 'n filloxofía e lletres, non pué faer munches froritures con les pallabres nin les lletres, ya per ístu, tien que encaldase 'n aforrador d'istus dellicáus y'artifixusus monumentus, perque si lus mesmus que güéi día que lus manexan y'atreinan, la metá de les veces non xapien lu que falen, ya llanquen el focicu fasta les urées en telares de Pachu 'l Xabadiegu betcháus de poxa y'escosáus del granu que ye pelu que tóus muramus nista engochá vida, ¿qué fairé you que 'deprendí namái que tres meses nuna escola pública? (Ni me hondeo en deserciones que se deshagan en pobrezas, porque quienes no son licenciados en filosofía y letras, no pueden hacer muchas florituras con las palabras y las letras, y por esta razón, tienen que hacerse ahorrativos de estos delicados y artificiosos monumentos, porque si los mismos que hoy en día los manejan y cuidan, la mitad de las veces no saben muy bien ni la mitad de lo que escriben, ni otra pareja parte de lo que hablan, y meten por estos menesteres el hocico hasta las orejas, en cuestiones que los imposibilitan para después resolverlas, y si se aproximan a este nivelamiento, lo hacen sembrando una hierba productora de mermado grano, que es el punto primordial que todos intentamos recoger en esta cerda vida. Como cuento, si estos señores eruditos en estas materias se equivocan ¿qué puedo hacer yo, ¡pobre de mí!, que tan solamente he tenido la suerte de ir al colegio público tan sólo tres meses?). Cuento yo que me hallaba en aquellos mis infantiles pensares intentando saber a qué huidos pertenecían aquellas armas, y así dejé tal perder el mucho tiempo que me sobraba, cuando mis ojos retrataron el gran combate que a baja altura, muy por debajo de donde yo me encontraba, sostenían tres cuervos, que despiadada y valientemente le atacaban a un águila real, y ésta piando quizás por el dolor que le inferían los efectivos picotazos de los cuervos, o tal vez en su lenguaje maldiciéndoles llena de rabia por el no poder repeler el ataque de que era objeto. No podía defenderse de sus tenaces atacantes, porque todo su cuerpo en gran tensión estaba, ya que al volar tan bajo, todas sus enormes energías las precisaba para mover sin el menor descanso sus grandes alas, con el apremiante fin de salir de aquel espacio que al parecer pertenecía a los belicosos cuervos, que con ardorosa valentía y enquina ofensiva, disputaban tal natural privilegio, a las mismas soberanas de los cielos. Había yo presenciado muchas veces batallas entre las águilas y los cuervos, y siempre éstos las perseguían atacándoles por su parte posterior, hasta la altura donde el águila ya no necesitase mover sus alas para sostenerse, cuando esto sucedía, los cuervos precipitadamente abandonaban el combate, porque ellos sabían, que donde el águila pudiese planear, todo animal viviente que se acercara, encontraría entre sus poderosas garras una rápida muerte. Queriendo yo saber como es natural el por qué los cuervos atacaban a las águilas, un día que cuidando sus cabras junto a mí estaba un paisano llamado Máximo, que por apodo se le llamaba el «Puchegu», porque tenía tantas razones en sus hablares como palabras por su boca se alumbraran, a pesar de que el Puchegu no sabía leer ni escribir, sabía de cuentos más que el mismísimo Quevedo, e igual hacía cuando se le necesitaba de veterinario que de médico, atinaba casi siempre cuando iba a llover o hacer buen tiempo, en fin, que era Máximu el Puchegu en todas aquellas aldeas de mis amores, una Enciclopedia que aventajaría en mucho a todas las que en nuestros días nos sirven las grandes editoriales, industriadas por hombres estudiosos de las ciencias. Empezó mi amigo el Puchegu explicándome, que son los cuervos de las abruptosas montañas más bregáus (valientes) que los que moran en las valladas o pequeñas lomas, y todo porque la escasez de alimentos en las rocosas cumbres, es muy inferior a los que existen en los valles o montículos, y así como a los hombres la abundancia los hace temerosos y a veces hasta pusilánimes, y la necesidad o privaciones los vuelve por ley de vida temerarios y osados, en los animales ocurre en igual medida lo mismo, así pues, el cuervo defiende su pitanza no permitiendo que las águilas cacen a menor altura que la que les pertenece, y si desde tal situación descubren una pieza, y bajan con su endemoniado vuelo de alas plegadas la apresan y luego vuelven a elevarse al lugar que les corresponde, los cuervos no osarán ni tan siquiera molestarlas, pero si por el contrario descienden para dedicarse a cazar desde el lugar que no les pertenece, entonces los cuervos las atacan con verdadera saña y valentía y siempre logran hacerlas ascender hasta la posición que ellos consideran justa. Esto es así, porque desde tal altura las águilas sólo pueden divisar en tierra una pieza que ellos no cazan nunca, como puede ser un conejo, una pequeña res, un zorro, y hasta inclusive el mismo perro que con el pastor cuida el rebano, y también se han dado casos en que las águilas hasta han cazado un lobo, y con él entre sus garras han subido hasta sus utreras (nidos) donde le devoraban con la misma satisfacción que pudieran hacer cuando se afestinaban con las tiernas carnes de un inocente corderillo. Si las águilas pudiesen volar más bajo sin ser por los cuervos molestadas, también podrían cazar con gran facilidad, lagartos, culebras, etc., etc., y es ésta precisamente la comida que el cuervo defiende, por eso ataca al águila cuando ésta intenta apoderarse de la que él cree que es su exclusiva pertenencia. Terminó el águila al fin tras el ardoroso acoso a que la sometieron los cuervos de subir hasta la altura que ellos consideraron lícita, y rápidamente éstos plegando sus alas la abandonaron y en vertiginoso vuelo buscaron el abrigo de los arbustos de sus montañas. Terminó para mí aquel día el maravilloso espectáculo que la soberana del cielo y los bravos cuervos me habían ofrecido, y fue entonces cuando me incorporé del lugar donde me hallaba sentado, para mirar a mis cabras que guarecían (pastiaban) por encima de donde yo estaba a la corta distancia de unos cincuenta metros, lo primero que mis ojos retrataron fue el orgulloso y antipático macho cabrío, que empericotáu (subido) en un cuetaron (peñasco) a la par que espenucaba (arrancaba) las fuéas d'un pótchiscu (hojas de una enana encina), mientras que las enguyía, parecíame a mí que me estaba mirando desafiadora y despreciativamente, con sus grandes y retorcidos cuernos, su larga perilla y enorme cencerro, se me representaba como el diablo que sonriéndose ladinamente se guasaba de mi humilde persona, a la par que de mi buen Pelayu, pues a entrambos y dos el condenado nos había hecho correr infinidad de veces, por eso, tanto Pelayu como yo siempre que teníamos ocasión y traicioneramente, él le mordía sañudamente en sus cadríles (patas) y yo le atizaba barganazus (estacazos) y pedradas donde mejor encaldase (terciase). Ocurriósele a mi mente en aquellos momentos el darle un buen susto a aquel demonio con cuernos y cencerro, por eso así la escopeta con determinación, y cargada como se encontraba con dos cartuchos, apunté por debajo de donde él se hallaba con el firme propósito de tan sólo darle un susto que no olvidase en su vida, y ya sonriéndome adelantadamente por el resultado de la idea que sin más pérdida de tiempo iba llevar a la práctica, apreté los gatillos de la escopeta, y una doble y potente explosión originose que dio conmigo en el suelo por la fuerte sacudida que el arma emburrióu (empujó) con dolor en mi cuerpo. Pero escosóseme d'afechu (marchóseme del todo) tal dolor, cuando entre el repilar (ecos) de la montaña por la explosión, sentí al macho cabrío lanzar al viento grandes berridas, que hiciéronme con preocupada prontitud deducir, que aquel demonio odioso no se quejaba por el susto que pudiera recibir, sino por la perdigonada que sin yo proponérmelo le había albergado en su pelambroso y maloliente cuerpo, levanteme sin demora del pedregoso lecho donde la escopeta con su duro empujón me había acostado, y aún tuve tiempo de ver cómo el semental de mi rebano rodaba por entre los cuetus del xerrapeiru (peñas de la sierra) infiriéndose más heridas en su cuerpo que las que yo por equivocación con los dos disparos le había inferido, siendo quizás su muerte no la perdigonada que le había desequilibrado, sino los argutoxus cuetus (agudos peñascos) que cual cuchillos al rodar su pesado cuerpo por entre ellos le apuñalaban mortíferamente, por eso al detenerse en su poleamientu (rodar) detrás de un pótchiscu (encina) que encontró en su paso, dejó de berrar en el instante, que su vigoroso cuerpo perdiera la vida. Fuime yo corriendo acompañado de Pelayu que me ganó la palma en la carrera, hasta el lugar de aquel desgraciado suceso, y cuando llegué donde el chivo estingarráu (tirado, acostado) ya no contaba como enemigo vivo, vi cómo a torrentes se desangraba, a la par que Pelayu con su nutritiva sangre se fartaba (hartaba). Pensé yo con gran temor cómo decirle a mi amo lo que había pasado, él que sentía por su chivo un orgullo y continuo ponderado casi desmedido, pues siempre que la ocasión se le brindaba cuando con sus vecinos dialogaba, soliales afarrucado (faroleándose, chuleándose) decir, que no había en toda la comarca un macho cabrío que ni con mucho en raza y estatura, se le pudiese parecer al suyo. Era ya casi la hora de afalar (retornar arreando el ganado para casa) cuando se me ocurrió la idea de decirle a mi amo que el chivo por si sólo se había despeñado, así que guardé la escopeta en la cueva y apresuradamente yo temeroso y preocupado y Pelayu contento por hallarse harto, reunimos el rebaño y nos encaminamos hacia la aldea, parecía que hasta las mismas cabras que en otras ocasiones se mostraban rebeldes y saltarinas, aquel desdichado día caminaban cabizbajas y avizorantes, observando en todas las direcciones con pronunciosa alteración, buscando aquel macho cabrío que las dirigía y dominaba con su orgullosa presencia, haciéndose notar en todo momento, por el continuo tañir de su zumbiétchu (cencerro), que por primera vez en el rebaño no se sentía el caidonante ruxíu (dirigente sonido). Pienso yo que solo contento caminaba vigilante mi fiel Pelayu, porque ya nadie en el rebaño se atrevía a discutirle sus ladridos o frágiles mordiscos, cuando por orden mía a las cabras con eficiencia les infería. Más sin embargo yo, al igual que a mis cabras, algo me tenía también apresado, algo extraño para mí, por primera vez a mi espíritu esclavizaba, que ni era tristeza ni pena, pero sí era miedo y grande desesperanza. Siempre que retornaba con mi rebaño a la aldea, cuando en las atardecidas la montaña abandonaba, mi corazón ameruxáu d'allegría (rebosante de alegría) a mi garganta un torrente de cante le rogaba, y ésta inocente y falta de todo perjuicio, sintiéndose tan dichosa como los mismos celestiales ángeles, cantaba recias asturianadas, mientras que todo mi ente, afanosamente afalaba (arreaba) las cabras. Quizás cantara yo aquellas horas con más gracia que en todo el día por alegre que fuera y pudiera tener, porque por así decirlo me acercaba al sencillo y noble vivir de las gentes de mi aldea, pues diez o doce horas en la continua soledad que en las montañas me acompañaba, para un rapacín como yo era, eran muchas horas desamparado de la comunidad humana, y sobre manera yo, que con ser mi cuerpo ágil y fuerte hasta casi rayar en el desuso, empequeñecido se quedaba si le comparaba con mi espíritu tan ensoñador e imaginativo, que todas las cosas al engrandecerlas confundía, menos el miserable pan de la maxera (artesa) que mi amo me entregaba, que a pesar de ser tan escaso, jamás supe imaginar nada para engrandecerle. Estaba mi amo a la entrada de la aldea esperándome como siempre hacía para ayudarme a xebrar el rebaño, ya que como eran tantas cabras, no cogían todas en la misma corte (establo), y había que llevar parte de ellas a otra cortexa (cuadra pequeña) que estaba en la parte opuesta de la aldea. Entretenía siempre su espera el condenado de mi amo, hablando con un artesano del lugar, que se dedicaba a la fabricación de yugos y madreñas, que tenía su taller montado debajo de un hórreo, que estaba asentado a la salida de la aldea, mismamente en la desembocadura del pedregoso y empinado sendero que venía de la montaña. Desde tal lugar él sentía con antelación el potente tañir del zumbiérchu (cencerro) que ximielgaba (movía) con fuerza y hasta con orgullo el estupendo semental de su rebaño, entonces él liquidaba por el momento con el madreñeiru la conversación que estuviesen embargando, y dedicaba toda su atención a su rebano, observando con avarienta atención, en el propiar si sus ganados venían fartus óu famientus (hartos o hambrientos), o si alguna de sus cabras venía coxa (coja) por mor de haberle caído una piedra o cualquier otro accidente que hubiera acaecido, como solía ser normal algunas veces. Pero aquel inolvidable para mi atapecer (atardecer) vio antes sus cabras que escuchara el ya inexistente zumbiétchu, por eso con su vozarrón de trueno, y como una centella por mí temido, me preguntó a la distancia de una piedra lanzada cuesta abajo: —¿Qué fói lu que pasóu Xulín...? —¿El chivu perdiu 'l mayuelu...? —Quería decirme, que si el cencerro que llevaba su chivo, había perdido el majuelo, o pequeño péndulo que lleva dentro el cencerro. —Esto también era frecuente que sucediese. Contestele yo desde aquella altura con mucho menos miedo que si me encontrase ante su presencia, diciéndole que el chivo se había despeñado, y arriba en la montaña se encontraba muerto. Estas mis palabras que en el viento camino de la aldea mi voz empujó con fuerza, fueron escuchadas por mi amo que se encaricotóu (encendió) en una rabiosa tristeza, que si pudiese desahogarla, seguro que en mi persona haría él su complacencia. También la desgracia del chivo, que por mí a voces era anunciada, fue oída por algunos otros vecinos a parte del madreñeiru, y como aquel semental de macho cabrío había sido siempre tan aponderado e idolatrado por el babayu (bocazas, charlatán) de mi amo, que con su dichoso cabrón los vecinos de la aldea ya habían pescado la costumbre de decir siempre que alguien ponderaba una cosa, ¡non si paezme a mín, que moren más castrones que Manín na nuesa aldea! Bueno pues como estoy contando, todo el lugar en pocos minutos se había enterado y en parte congregado a la salida del camino que bajaba de la montaña, ya que la muerte de aquel chivo que había ya dejado entre ellos la ya dicha cantinela, les había algunos los más envidiosos y vengatibles alegrado, y a los otros los más sentimentales y nobles les entristecía la muerte de tan comentado castrón. (También se suele llamar castrones a los chivos muy grandes). Al fin entré yo en la aldea quizás con el mayor recibimiento que jamás a nadie le hicieran, y todos atropelladamente me preguntaban lo que con el dichoso castrón me había sucedido, y yo les repetía a la par que intentaba xebrar las cabras para llevarlas a sus respectivas cuadras, que se había despeñado y que todo descuatramindáu (deshecho, desarmado) se quedara en la montaña. Un ratiquín (un tiempo) más tarde, y ya siendo casi la oscurecida, tres vecinos del lugar haciendo cuadrilla con mi amo, caminaban en pos de Pelayu y mía, otra vez camino de la montaña, para enseñarles donde estaba estrapayáu (aplastado) el chivo, con el propósito de bajarle para casa, con el fin de aprovechar su piel y carnes, que serían curadas bajo las barras del xardu (secadero) una estupendísima cecina. Llegamos a la postre ya con la noche tan negra como la boca de el lobo, al xeitu (sitio) donde el chivo fechu 'n chaceiru (hecho un deshecho) ya en el frío de la muerte sin despertarse dormía, tanto Manín que yera mi amo, como los tres vecinos que le hacían compañía, sudorosos y respirando medio ahogados por el tremendo esfuerzo que suponía subir con tanta rapidez hasta tamaña altura, sin perder un momento amarraron el animal por las cuatro patas juntas haciendo cucara (en montón, juntándolas todas) con una cuerda que para tal menester ya traían, y colgándolas de un fuerte y largo palo del que también venían poseídos, echáronselo al hombro entre dos, y con menor rapidez y mayor precaución, relevándose entre ellos conseguimos llegar sin novedad a la aldea. A pesar de ser casi la media noche, aun había algunos vecinos en reunión dentro de al parecer amena charla que quizás tuviese mucho que ver con el castrón, Manín y con mi desventurada persona, esperándonos en el lugar donde el madreñeiru trabajaba. Entramos todos en procesión rumorosa en la corralada de la casa de Manín, detrás del cabrón que colgado del baral sofitado en los hombros de dos vecinos se xiringaba (balanceaba), vigilado siempre con sonrisa ladina por mi fiel Pelayu, que comprendía que al no tardar, iba a saciarse hasta el no poder manducar más, con los rojos hígados de quien en vida, le hubiera hecho correr con cierto temor con el rabo entre sus piernas. Mientras que mi amo y sus serviciales vecinos se disponían a desfoyar (desollar) colgado de unos garfios que había debajo del hórreo al desgraciado chivo, la muyer (mujer) de Manín sin parar de condolerse, y hasta inclusive queriendo a mi endilgarme parte de la culpa, me dio de cenar una escudilla de farines (harina de maíz cocida) con una taza de leche de cabra, porque la leche de las vacas la tomaban ellos y la que sobraba la hacían en manteca, que tampoco yo nunca la probaba. Por primera vez no se hallaba sentado a mi lado sacando la lengua y relamiéndose, mirándome con sus ojos inteligentes en espera que yo le tirase delante de sus narices una cucharada de mi comida a mi fiel Pelayu, pues él sabía que al lado del castrón, tenía una fiesta grande con sobrada pitanza. Comía yo vorazmente aquellas puliendras (farinas), a tan desusada hora de la noche, sin que mi mente de pensar cesara, y antes de terminar mi miserable cena, una luz que me llenó de cierto temor en mi cerebro escendiose, para decirme con su claridad, que no iba a transcurrir mucho tiempo antes de descubrirse mi mentira, porque al esmianaye 'l pelleyu (quitarle el pellejo) al castrón, le encontrarían incrustadas en su cuerpo las postas que le habían matado, y me interrogarían sobre tal suceso, siendo yo al momento un cómplice y encubridor de la muerte del condenado cabrón, que según parecía me iba a dar guerra hasta después de ser muerto. Seguramente querrían saber el por qué les había mentido, haciéndoles creer que se despeñara, cuando a la prueba estaba que fuera abatido por un tremendo pistoletazo. Bajé después de cenar a la corralada donde los hombres andaban a vueltas en la desfoyadura del castrón, a la luz de un par de candiles de carburo y no llevarían un cuarto de hora reparándoles en su circunstancial oficio de carniceros, cuando Antonón el de la Cuandia dijo sorprendido mirando para mi amo que le alumbraba con el candil en la mano para que los otros vieran mejor en la faena que encalducaban (hacían). ¡Ah Manín, isti castrón non morrióu comu diz el tou criadín despeñáu, pos tién ente 'l coración ya lus polmanes un manegáu de postes llancades, asina que si quiés saber quién l'achuquinóu, pregúntaye 'l tou rapazacu, lu que axucedióu! ¿Qué ye lu que me tas diciendu...? ¿Quién diañus diba pegái 'n tiru 'l miou cabrón ? Antonón arrabucandu d'ente les asaures del chivu cuatru ou cincu postes que yeren de grandies comu arbeyinus rancuayus, díxole 'l miou amu metiénduyes per dellantri 'l focicu: ¡Mira Manín, ístu fói lu qu'achuquinóu 'l tou chivu! (Ah Manín, este cabrón no murió despeñado como dice tu criado, pues tiene entre el corazón y los pulmones un cesto de postas plantadas, así que si quieres saber quién le asesinó, pregúntale a tu muchacho lo que sucedió). (¿Qué es lo que me estás diciendo? ¿Quién demonios le iba a pegar un tiro a mi cabrón?). (Antonón arrancando de entre las asaduras del chivo cuatro o cinco postas que eran de grandes como pequeños guisantes, le dijo al mi amo mostrándoselas por delante de su hocico: ¡Mira Manín, esto ha sido lo que asesinó a tu chivo!). Hallábame yo detrás de ellos a media penumbra, por eso no pudieron ver cómo todo mi cuerpo temblaba, y mis mexiétchas (mejillas) se encendían como las mismas brasas cuando el viento las apuxa (atiza). Quizás si fuese a pleno día, me hubiesen sacado la verdad al descubrir yo mismo por mis síntomas externos la mentira, pero la noche, encubridora de toda claridad que profané sus negras vestiduras, me ayudó a ser firme e inamovible de mi primera mentira. Convencido mi amo de que le había engañado, acercose a mí con el candil en una mano, y llena su despreciable alma de ira, y enloquecida venganza, con la otra su mano, atizome un fatáu de morráes (varias galletas, tortas, guantazos) que dieron con mi cuerpo en el suelo, y antes de que yo pudiese huir del peligro que me rodeaba, levantome del suelo con la misma mano que tan vilmente me castigara, y a la par que alumbraba mi rostro donde la abundante sangre que manaba de mi nariz lo embadurnaba, me dijo mirándome con sus ojillos de bracu (cerdo) donde la maligua ira en un brillo salvaje se enseñoreaba: ¡Ahora mismo me vas a decir hijo de perra y de republicano asesino, que el día que asesinaron a tu padre que era lo mismo que tu un embustero y un bandido, te tenían que haber envenenado a ti, para que no pudieses hacer el mismo mal que hizo tu condenado padre, vamos, dime quién fue el que disparó contra mi chivo, dímelo pronto o terminaré contigo! Y al tenor que esto me estaba diciendo, su dura mano caía una y otra vez sobre mi rostro, y fue entonces cuando aquellos hombres de entre sus manos me arrancaron, pues al no hacerlo, quizás aquella bestia humana, que había luchado en defensa de la (PAZ DE ESPAÑA) fácil me hubiera asesinado, como seguramente acostumbrado debía de estarlo, al haber practicado tal demoníaco proceder, con otros indefensos inocentes, de los miles que asesinados fueron en Nuestra Patria, por cobardes, dañinos y miserables hombres, como lo era mi despreciable amo. Fue curado con agua fresca mi amoratado y sangrante rostro por Antonón de la Cuandia, que me aconsejaba cariñosamente, les dijese lo que con el cabrón me había en la montaña sucedido, y que no tuviera ningún miedo de contar la verdad que se buscaba, pues ella misma me protegería de quien me hubiera amedrantado para que no le delatara. Cuéntanos hijo si fueron los huidos quienes al chivo le dispararon, ya que nadie más que ellos pudo hacer tal cosa, y ten presente que si no nos lo dices ahora, mañana vendrán los guardias y ya verás cómo con ellos no puedes seguir negando. Díjele a Antonón el de la Cuandia, que yo estaba dormido, y que me desperté cuando sentí al cabrón bramar desesperado al tenor que bajaba rodando por entre los peñascos, siendo aquello todo cuanto yo había visto y oído. Volvió otra vez ya más sosegado mi amo a insultarme y amenazarme, y a la postre me ordenó que abandonara su casa, pues él no fartaba bribones que lejos de cuidar su rebaño, permitían que personas tan canallas como yo lo era se lo asesinaran. Marcheme de aquella casa de noche, maltrecho mi cuerpo y deshecha de sufrimientos mi infantil alma, sin más pertrechos que los que llevaba a costillas, que eran los únicos que poseía, y que constaban de un mono de caqui hecho de la guerrera de un soldado, con más remiendinos que de plumas tiene una gallina y de todos los colores que imaginarse puede, calzado con unas alpargatas de esparto donde los calcaños se asentaban en el suelo y los dedos lo mismo hacían por no quedar de las alpargatas nada más que la parte del centro. Por primera vez desde hacía varios meses que Pelayu era o mejor dicho había sido compañero inseparable de hambres y fatigas, de juegos y caricias, de largas soledades entre ambos repartidas, por primera vez digo, mi fiel compañero ya no me seguía, me traicionaba el muy ladino por unas piltrafas que de vez en cuando aquellos hombres que carniceraban en el cabrón, le arrojaban en el empolvado suelo de la corralada, para él valía en aquellos momentos más la asquerosa pitanza, que todo el cariño que yo pudiera brindarle, ya no se recordaba el muy desagradecido de que yo repartía con él a partes iguales la escasa comida que para mi sólo me entregaba el llabascón (cerdo grande) de mi amo, en una palabra, Pelayu era un desagradecido y egoísta, propiedad que en mayor o menor cuantía, va fusionada en el instinto de todo ser mamífero de la Tierra. Llegué aquella primera noche de mi vida, que había sido maltratado, insultado, golpeado, pisoteado, arrastrado y ofendido a tan gran profundidad y altura, que dudo que a mis años en todo el mundo, a nadie le hubiera sucedido tan inhumana atrocidad, cuento yo, que hice mi entrada en la casa de mi madre, que en la sazón se encontraba trabajando en una alejada aldea, en el caserío de otra viuda que su marido había sido asesinado en el cementerio de San Salvador de Oviedo la misma noche y en el mismo paredón que fusilaran a mi padre, así pues, hallábame yo sólo en casa y eso enormemente en aquellos momentos me alegraba, pues si mi madre hubiera estado en la casa, le haría sufrir aviñonándome yo de pena, y quizás ocurriesen peores cosas, ya que mi madre era, y aun sigue siendo, y Dios me la conserve muchos años, pues fue lo mejor y lo único que he tenido en mi existencia, mujer de duro carácter, intrépida y valiente hasta no tener el más pequeño temor, de pelearse ella sólo contra todos los moradores de la aldea. ¡Cómo mi madre, nacen en un siglo pocas mujeres! Al día siguiente que era domingo, y por tener en la parroquia a que pertenecía mi aldea, un cura que para demonio había nacido, ya que el muy condenado había conseguido de las autoridades una ley, que no se quién se la había fabricado, pero el caso es que existía, y condenaba a todos los vecinos a oír la Santa Misa, y a no trabajar ni en las tierras, ni en los prados, ni en nada, bajo pena de una multa que la ley considerara justa por ser injusta. Como yo ya no tenía trabajo, pues cuidar los ganados estaba permitido, y aquel gochu de mi antiguo amo desde aquel día tendría que hacer el trabajo que como un miserable esclavo yo le hacía, me levanté tarde del único xergón de fuéa (jergón de hoja) que en la casa había, que lo había industriado de unos sacos, porque todo cuanto poseíamos que era bien poco, al terminar la guerra el honrado vencedor nos lo había robado, y no contentos con esto, todavía fusilaron a mi padre, acusándole de haber robado grandes cantidades de dinero, de haber hecho esto, lo otro, y lo demás allá, y todo porque se le querían cargar cuatro caciques, como se ha hecho en todos los lugares de mi Patria buena. Noté que me dolía el rostro y que le tenía ensangrentado, no pude mirármelo al espejo. porque éste era un lujo que en mi casa no existía, así pues, me fui hasta el río que por detrás de mi casa pasaba, y me lavé como mejor pude, secándome después a las sucias y ásperas mangas de mi mono, y sin desayunar nada, porque en la casa no habla ni la más mínima consolación de comida, me dirigí a oír la misa, ya que yo de pequeñín era muy creyente y religioso. Estando yo enredando (jugando) con algunos otros guaxinus (niños) de mi aldea, en espera que tocase la última campanada para entrar en la iglesia, vi llegar la pareja de la guardia civil y un vuelco de temor revolvió mi ánimo, que casi consiguió ordenarme que saliese corriendo, huyendo pronto de aquel nuevo peligro que me acechaba. Sin embargo no lo hice, porque o no era lo suficientemente valiente, o lo necesariamente cobarde para hacer tal cosa, lo cierto es que cesé de jugar y me quedé mirando para ellos, lleno de temor, de tristeza, de pena. Preguntaron a alguien quién era yo, uno de mis vecinos me señaló, entonces los guardias me llamaron, y yo hacia ellos avancé, cabizbajo, temeroso y desamparado, igual los niños que los vecinos me miraban sin urniar (decir) palabra, muy posible muchos de ellos, tanto fascistas como rojos, vencedores o vencidos, sintiesen una profunda pena al ver aquel niño, desventurado e inocente ruina que dejó la vil venganza de la posguerra, avanzar sin protección ni cariño de nadie hacia los guardias, al fin llegué junto a ellos y me los quedé mirando, no me gustaron sus rostros, que me parecieron dos demonios, entrambos se quedaron mirando unos momentos en silencio mi rostro, en el que se podía leer la despreciable cobardía y nefastosas intenciones, que se enraizaban en el podrido sentimiento de mi amo, pude comprobar que esbozaban una tenue sonrisa, y no pude descifrar, si era que les alegraba observar el sello del martirio anclado en mi cara, o si por todo lo contrario, me dedicaban un consuelo de lastimosa consideración. Qué enano era yo físicamente en aquella lejana y para mi inolvidable, desgraciada y maestrosa mala época, si desde mi distancia también en el momento mi señora prisionera, proyectó mi mente siempre libre, como el misterioso dios que en cada mente humana vive, cuento yo que si me observé ante toda aquella gente, asustados los unos, hartos de maltratos, satisfechos los otros, por formar parte del mando, e indiferentes los restantes por no contar nada en ningún bando, digo que si me vi tan insignificante en mayor cuantía todos cuantos me rodeaban eran, ya que ninguno de ellos optó, en defender a un niño inocente y lleno de temor, que no había cometido más delito que el matar sin querer a un chivo, que era menos cabrón que todos aquellos papalbus humanos. Uno de los guardias con el mosquetón en la mano, me acarició mi corta y jamás peinada cabellera, pues nada más que tenía dos dedos de larga, mi madre me la rapaba al cero para que los abundantes piojos en ella no sembraran la descendencia de sus miserias, y a la par que esto hacía tan despreciable celador de una ley muy poco justiciera, con palabras que pretendían ser cariñosas y amables me dijo: —Ya veo por las caricias que luces en tu rostro, que con todo merecimiento y sin ninguna duda el señor Manín te ha hecho, que eres un niño rebelde, desobediente y malo, que te niegas a decir la verdad, y por lo tanto por todos estos endemoniados pecados irás al infierno, así es, que si ahora mismo no me dices quién fue el que disparó contra el chivo de tu amo, yo también tendré que castigarte. En esto estábamos el guardia y yo rodeados por los vecinos que no decían ni pío, cuando hizo acto de presencia el señor cura, que relevando a la autoridad de su palabra no así de mi persona, me aconsejó apoyando sus frases en la Divinidad de Señor, para que les contase la verdad que me liberaría de todos mis sufrimientos. Díjele al cura lo mismo que al guardia que yo estaba dormido, y que sólo me había despertado al oír al chivo berrar a la par que bajaba por entre los peñascos rodando. La ruda mano de aquel guardia, que seguramente había sido toda su vida un rústico campesino y que la guerra le había liberado de tan honrado lugar para colocarle en el más delicado de los oficios, como es el de servir con dignidad a la Justicia, cuento yo que aquella pesada mano de aquel hombre que pensaba que las personas había que tratarlas como a las bestias con las que él hubiera vivido siempre, dejó de acariciar mi cabeza y sus dedos se aferraron como si fuesen fuertes murgazas (tenazas) a una de mis uréas (orejas), y sonriéndose como si me estuviese el muy hipócrita acariciándome, a la par que me rogaba que le contase la verdad, me apretujaba con tal fuerza, que el dolor que me inyectaba me hacía ver todas las estrellas. Creo que lo que más le molestaba aquel cobarde representante de la ley, no de la Justicia, era que yo, que la vida ya me había forjado en saber llevar el sufrimiento, ni llorara, ni gritara ni menos me quejara de nada, por eso el infame seguía despiadamente con todas sus fuerzas apretándome, aun es hoy el día, que cada vez que me recuerdo de aquel momento mi oreja se pone tan rápidamente colorada, que hasta me molesta el calor que alumbra. Así en este atroz sufrimiento yo me debatía, sin que nadie de los allí reunidos por mí intercediera, dentro del horripilante dolor que me producía aquel estrapayáu d'uréas (retorcimiento, aplastamiento de orejas), cuando llegó mi madre ante la concurrencia, pues como era domingo, bajaba la pobre de aquella aldea donde toda la semana había estado trabajando, trayendo encima de la cabeza una manieguina (cesta) llena de viandas que en el caserío le habían dado a cuenta de su esfuerzo. Cuando mi madre me vio a mí, en tal escarnecimiento, tiró la manieguca al suelo, y llena de una fuerza airada que la multiplicaba, se acercó tan randa como una centella hasta mi verdugo y arrancándole el mosquetón de un fuerte tirón de entre su mano, le pegó con él tamaño golpe encima de sus costillas, que dio con él como si se tratara de un muñeco de trapo en tierra. Antes de seguir con esta cierta historia, voy hacer un inciso, para describir muy someramente cómo era mi madre en aquella época. Era joven, aun no llegaría a los cuarenta años, y a pesar de su juventud, ya había perdido la pobrecita dentro de los mayores sufrimientos que se puedan imaginar, a dos hijos que luchaban en la guerra, a su marido que fuera fusilado y a todo cuanto poseía. Mi madre como perteneciente a la más ancestral raza astur, era rubia, con el pelo del color de la miel, o de la escanda sazonada, tan abundante lo tenía, que cuando lo llevaba suelto y se acuruxaba (agachaba) le tapaba todo su cuerpo como si lo cubriera con una preciosa manta. Sus ojos eran a veces tan azules como el transparente cielo de una mañana de primavera, y en ocasiones eran tan verdes como los mismos campos de nuestra aldea. Era tan pura y recia como la misma madre naturaleza, inamovible en sus decisiones, honrada y justiciera. Era una auténtica astur procedente de la primera raza que pobló las ubérrimas montañas de mi noble tierra, y no una mistificación como somos hoy en día más del noventa por ciento de las gentes asturianas, enraizados con todos los colonizadores de nuestra tierra. Mi madre enojada era una invencible fiera, y tranquila y serena, era tan hermosa y dulce como incomparablemente lo es mi asturiana tierra. Y ya dicho con suficiente claridad como era esta excepcional mujer, vuelvo a centrarme en el desaguisado que mi madre justicieramente preparara, con una valentía y decisión tal, que dejó a todos perplejos y anonadados, pues el guardia que en posición ridícula espanzarrado moraba en el suelo, desde tal lugar miraba con ojos desorbitados a mi madre que con el mosquetón en la mano y a la par que se lo arrojaba con fuerza y mala sangre contra su pecho le decía: ¡Yes un llimiagu, lu mesmu que toes istes xentes que conxentíen, qu'dellantri de la mesma ilexia del Faedor, y'en prexencia d'isti cura escosáu de coyones ya xusticieres razones, lú mesmu que tous vuexotrus que sois una cabaná de baldreyus, que tu que yes un cachiparru, martirizares a isti nenín pequenu, ya s'ístu faedis con miou fíu qu'entavía 'l probitín non sabe dúnde come, ¿qué faeredis con les prexones mayores? (Eres un rastrero baboso, lo mismo que todas estas gentes que te consienten, que delante de la iglesia de Dios y ante la presencia de este cura que no tiene ni cojones, ni justicieras razones, lo mismo que todos vosotros, que no sois nada más que un rebaño de cobardes, que tú que no eres nada más que un parásito martirizaras a este pequeño niño. Y si esto haceís con mi hijo, que todavía el pobrecito no sabe de dónde come, ¿qué hareis con las personas mayores...?). El otro guardia que sin lugar a dudas parecía un hombre con mejores sentimientos que el gusano que me había martirizado, intentaba sujetar a mi madre propinándole palabras que le aconsejaban que no complicara más las cosas, mientras que su repugnante compañero se levantaba del suelo, y ya con el arma entre sus manos, la enarboló por encima de su cabeza en amago de dejarla caer encima de mi madre a la sazón que con una inquina maligna y cobardosa le decía: ¡Si fuese usted un hombre, ahora mismo le partía la cabeza en dos para que al final de su existencia comprendiera usted, que el deber de todo ciudadano es respetar a la ley! A lo que mi madre le respondió de la siguiente manera: —Si you fora un home, a usté había qu'allevantalu dóu tá, p'ancuandiálu debaxu tierra, que ye 'l llugar quéi cuerresponde a la xentuza baldreyante comu ye usté. Ya tocante a la ley que reprexenta, que ye tan betchá de maldáes comu usté mesmu, pásula you ya toes les prexones decentes pente les piernes ya mexamus per echa. ¡Perque isa lley que tantu cacaréa achuquinóu ya t'achuquinandu a fatáus d'iñocentes, sin respetar nin al vietchu que t'encantu la xepoltura, nin al xoven qu'entavía non golióu 'l tafu de papalbus ya rapiegus que tienen tous los comedores que la endubiechan y'esmarachen! (Si yo fuese un hombre, a usted había que levantarle del lugar donde se encuentra para enterrarle bajo tierra, que es el sitio que le corresponde a la gentuza cobarde como lo es usted. Y tocante a la ley que tanto cacarea, que está tan rica de maldades como usted mismo, la paso yo y todas las personas decentes por entre las piernas y meamos por ella). (¡Porque esa ley que usted representa, ha asesinado y está asesinando a muchos inocentes, sin respetar ni al viejo que ya se encuentra al borde de su sepultura, ni tampoco al joven que todavía no se ha olido, el característico mal hedor que emana de los comedores, indeseables y ladrones que la han hecho, así como ustedes que atropelladamente obligan a punta de pistola y látigo a que se cumpla!). Aun puedo ver en los rostros de todas aquellas gentes que nos rodeaban, desde esta asquerosa celda donde viviendo el presente que me aprisiona en esclavo de unas injustas ordenanzas, mi mente desdoblándose en dimensiones pasadas, añora con tristezas y alegrías, las primeras alumbradoras fuentes de toda mi desgracia. Sí, veo los ojos asustados de algunos de mis convecinos, que al escuchar aquellas graves y acusadoras palabras que mi madre airada, enloquecida y por toparse en su justo desquiciada, le decía a aquel guardia que tan cobardemente la amenazaba. Sí, veo como todos ellos con tristeza pensaban, que mi madre no iba a salir de aquel asunto bien librada. Pues en aquellos tiempos por menor delito, al paredón de fusilamiento llevaban a personas más recomendadas. Vi los ojos de aquel guardia ruin y rastrero, vilos cómo se llenaban de una alegría satánica, quizás en otras ocasiones ya por él vivida, cuando a tantos inocentes martirizaba o asesinaba. Vi cómo dejó de amenazar a mi madre, cómo colgó el mosquetón de su hombro, y metiendo la mano sonriendo canallescamente en su macuto, sacó unas relucientes esposas con las que se disponía a encadenar a mi madre en el lleldar (acaecer) que le decía: —La voy a llevar a usted y a su hijo detenidos hasta el cuartelillo, y allí, le enseñaremos a usted a respetar la ley y el orden, ya verá usted cómo cuando nosotros la dejemos, no se le ocurrirá jamás ofender a la ley y al régimen, ni aun en su propio pensamiento. Y en cuanto a su cachorro, que parece ser tiene su misma casta, también le enseñaremos a decir la verdad aunque tengamos que arrancarle la lengua. Fue entonces cuando uno de los dos principales caciques de la aldea, que también ye menester que cuando encarte les diga cómo eran, le dijo al guardia con palabras amenazadoras: ¡Dexe tranquíl ista muyer ya 'l sou fíu, pos güéi mesmu vou cuntaye you 'l sou xefe la clás de guardia que ta fechu. (Deje tranquila a esta mujer y a su hijo, y hoy mismo le voy a contar a su jefe la clase de guardia que está hecho, que se ha dejado desarmar por una mujer cuando cobardemente usted martirizaba a su hijo, poco puedo poder yo si no le hago catar covixu noitre ufixu (oficio), perque nisti de guardia paeme amindi que nun ten llixa (arte, valer, etc.). La fuerza y poder que tenían aquellos desalmados caciques en aquellos tiempos de desalmados vivires, achindi mesmu xuntu lus mious güétchus (allí mismo frente a mis ojos) quedaba bien claro, porque aquel guardia aviñonáu de miéu (lleno de miedo), se justificaba rastrera y servilmente pidiéndole perdón aquel hombre que no había sido en toda su vida nada más que un verdadero canalla, per ístu miou má noxá fasta cuaxí la llocura dista maneira le falóu (por esto mi madre enojada hasta casi la locura de esta manera le habló). —Lu que me faltaba per uyír, que tena que debéi cumplíus a isti baldrayu d'achuquín, que dexóu la nuexa 'ldina xemá de güerfaninus dexamparáus de la mán del Faidor ya de lus homes. (Lo que me faltaba por escuchar, que tenga yo que deberle favores a este cobarde de asesino que dejó la aldea sembrada de huérfanos desamparados de la mano de Dios y de los hombres). ¿Nun foste tóu sou banduerru de lus enfermus el que denuncióu 'l miou home paque me l'achuquinaren na cárxel d'Uviéu? (¿No has sido tu comedor, canalla de los infiernos el que ha denunciado a mi marido para que me lo asesinasen en la cárcel de Oviedo?). ¿Ya con lus fíus de Manolón el Gocheiru...? ¿Qué foi lu que fixiste conechus baldrayán? Que yeren un par de rapazus más bonus qu'el pan d'escanda qu'enxamás fixerun mal a naide, ya cundu taben per aquíndi de millicianus, ya tóu t'encovaxabes fugáu per les branes, tóus xapiemus na cabana que t'empayaretabes, ya tantu nuexóitres perque yeras veicín comu aquechus ñocentinus rapazus qu’achuquinasti deximiémuste xempre pa que nun te prendieren. Que fatiquinus forun lus probetayus rapazus, y'anxín pagarun con las sous vides les sous fatezas, pos se te viexen deñunciáu, nistes gores tabes fechu 'n meruxéiru de merucus, xustamente lu que yes, y'echus taríen vivus al lláu de lus sous pás. (¿Y qué has hecho con los hijos del Cerdero?, que eran un par de mozos más buenos que el pan de escanda, que no han hecho más mal los pobrecitos, que cuando fueron al servicio militar por la quinta; y estuvieron por estos contornos de milicianos, mientras que tu andabas por la braña huido, y sabiendo nosotros en la cabaña donde te refugiabas, no te hemos denunciado porque eras nuestro vecino, aunque tuvieras la idea política que te diera la gana, que no debe de ser ninguna, porque te parió tu madre canalla desde la entraña, pues como te estoy diciendo, tanto aquellos grandes rapazos como nosotros, te olvidábamos siempre para que nunca te cazaran. ¡Qué tontos fueron aquellos pobres y desgraciadinos muchachos, y así pagaron con sus vidas sus tontezas, pues si te hubiesen denunciado, a estas horas, tu estarías hecho una verbena de gusanos, que ni más ni menos es lo que eres, y ellos estarían vivos al lado de sus desesperantes padres!). Todos escuchaban a mi madre silenciosos y asustados, considerando algunos con tristeza, que mi madre se había vuelto turulata (loca) para atraverse a manifestar acusadoramente ante los guardias, el cura y el pueblo, lo que todas las gentes de la aldea sabían que era cierto, pero no se detuvo mi madre en el acuse que le hacía aquel villano de todas sus bellaquerías, pues al no encontrar nadie que la importunara, siguió con su palabra y con igual fuerza mortificándole de esta manera: —E nus tiempus d'endenantes, cundu lus roxus mandaben lu mesmu que vuexotrus facedis nagora, non trañia l'esquilona de l'ilexa p'axuntanus en conceyu p'uyír la misa tres el cura, perque pieschada taba la casa del Faidor, ya con lus curas lus roxus nagua querían, peru a pesar de tar tan lexus del Faidor, a naide s'achuquinóu n'aldea, ya se morrierun un par de rapazus, fói nel frenti, peru nagora que tenemus l’ilexa 'l entestate, y'un cura que coyius de la man quiér chevanus a tóus pel atayu de non sei que Dios, ya non sei que cielu, pos con tou isti telar, entremedáu de cures, ya caciques comu lu yes tóu, de confexones, mises ya xermones, achuquinasteis n'aldea 'n poucus dies, más xentes que de mala manera, enxamás de lus xamases en Asturies murrierun. Se tóu xupiés so lladrón achuquinante, lu mesmu que toes istes xentes que m'acorrelan, lu que you tenu xufriu nes comunicaciones de la muerte que se encaldaben na cárxel d'Uvieu, dúnde 'l miéu ya 'l espavoríu facien fuercia, únde 'l fríu enxenebráu la entraña te queimaba, únde les chárimes esbocáes en el glayíu xapoixaben, atristeyáus ya dollores qu'eszarapicaben, tous lus xentíus de cuantus escuchaban. Non puéu apoixar de mious videtches, lus güeyus enfervecíus de aquechus homes, qu'agoxáes allumbraben engafuráes chárimes, con les manes tembluqueántes per el miéu, acoyendu con desesperación las rexes de fierru, que non lus dexaben en postreira vez, abrazar a la sou muyer ya lus sous fíus, qu'ameruxáus de cariñu, ya betcháus de dollor, choraben ya glayaben, xiringáus per el amore que profexaben naquel home, que yera 'l pá de lus fíus, el mantín desous quereres, y’l caidonal del sou llare. Naide algamía per mor de aqueches rexes de fierru entemedades, falagar cómu postreira despedida, a la muyer nin al home, nin lus pequeninus fíus, que güerfaninus naquecha nueche diben quedaré, perque banduerrus baldreyus lu mesmu que tóu, lus deñunciaben y'acusaben de faer fatáus de couxes, que ni nel xoñéu lus probetayus dacuandu lleldaren. Tóus nun mirabamus atristeyáus per debaxu la borrina qu'acobertoriaba lus güeyus encarnispáus pe les chárimes, ya lexus de falanus tantes couxes, nel tiempu tan escosu que nus daben, esfaíamonus en playíus choramiqueirus llastimeirus e nes fanes más mortales. Enclicáus tous per un dollor que nes entrañes esquiciáu t'esgarduñaba, tabamus fatáus de xocenes muyeres que güéi toes viudes y'esgraciaínes semos, enlloquecides y'engarrinchades a les rexes que a la llibertá ya la xusticia trincotiaben. Nagua podiamus decinus, perque la pallabra afogábase na conguetcha qu’el alma esfaída pe la tristieza sacupaba, sous penares nel gargüélu, a munchus el dollor añuedábayes el celebru con tal prietura, que esmurgazábanse col xentíu perdíu nel enllabanáu xuelu. Alcuérdume comu s’agora mesmu fora, ya xamás de lus xamases tal desxusticiáu, endiañáu, baldreyóuxu ya chuquinamientu de xentes abondes d'eches tan iñocentes comu isti rapacín, que la mesma lley qu'achuquinóu a suo padre, martirizóulu a él, ante 'l cura, que mangonéa la mitá la aldea, y'isti banduerru de cacique dumeña entrambas partes, ya tous voxoutrus qu'empaparáus per el miéu, olvidósebus defender tou lo güenu per lu que lus vuesus homes llucharun ya morrierun ¡Sin alcuerdume d'aqueches canallesques comunicaciones que se lleldaben na cárxel d'Uvieu, ya non esborraránseme de les mious vidatches metantu que la vida me acompañe! (En los tiempos ya pasados, cuando los rojos mandaban lo mismo que vosotros hacéis ahora, no tañía la campana de la iglesia, para llamarnos y rejuntarnos a todos en fraternal comunidad, para escuchar la misa detrás de un cura, porque cerrada estaba la Casa de Dios, y con los curas los rojos no querían saber nada. Pero a pesar según parecía de que se encontraban muy lejos del Hacedor, a nadie asesinaron en la aldea, y si han muerto un par de jóvenes, ha sido luchando en el frente. Sin embargo ahora, que tenemos la iglesia siempre abierta y un cura que asidos de la mano, quiere llevarnos a todos por el camino más corto para alcanzar, no sé a qué dios, ni tampoco a qué cielo, pues con todos estos sucederes que ahora están pasando, entretejidos por los curas, y por caciques como lo eres tú, de confesiones, misas y sermones, habéis asesinado en la aldea en pocos días, más gentes que de mala manera, jamás de los jamases no contando estos tiempos, en todo Asturias han muerto. Si tu supieras so ladrón y asesino, lo mismo que todas estas gentes que nos rodean, lo que yo he sufrido en las famosas comunicaciones de la muerte que se hacían en la cárcel de Oviedo, donde el miedo y el pavor, hacían fuerza, donde el helado frío que el temor producía, al mismo tiempo las entrañas te quemaba, donde las lágrimas deslocadas en gritos lastimeros se posaban, haciendo tristezas y dolores tan inmensos, que despedazaban todos los sentidos de cuantos escuchaban. No puedo apear de mi cerebro los ojos enardecidos de aquellos hombres, que a cestadas alumbraban envenenadoras lágrimas, y con sus manos temblorosas por el miedo, cogían con desesperación las rejas de hierro, que les prohibían por última vez, abrazar a sus mujeres e hijos, que llenos de cariño y ricos de dolor, lloraban y gritaban desesperadamente, movidos por el amor que profesaban a aquel hombre, que era el padre de los hijos que quedarían ya para siempre desamparados, el amante esposo de sus quereres, y el fuerte guía de sus lares. Nadie alcanzaba por la causa de aquellas rejas de hierro fuertemente entretejidas, halagar como última despedida, a la mujer ni al hombre, ni a los amados y pequeños hijos, que huerfanitos aquella noche si iban a quedar, porque indeseables cobardes lo mismo que tu eres, les habían denunciado y acusado, de haber hecho muchas y malas cosas, que ni en el sueño los pobrecitos, jamás ni habían pensado. Todos nos mirábamos entristecidos, por debajo de la niebla que nublaba los ojos enrojecidos por las lágrimas, y lejos de hablar de tantas cosas en el tiempo tan corto que nos daban, nos deshacíamos en lamentos lastimosos, que nos precipitaban en los abismos más mortales. Agachados todos por un dolor que en nuestras entrañas enloquecido sin piedad las arañaba, estábamos en aquella triste ocasión, muchas jóvenes mujeres que hoy todas viudas y desgraciadas somos, enloquecidas y agarradas con desespero a aquellas rejas, que a la Libertad y a la Justicia pisoteaban. Nada podíamos decirnos, porque las palabras ahogábanse en la garganta, que el alma deshecha por la tristeza, vertía en ella sus penares. A muchos el dolor les aprisionaba el cerebro con tal fuerza, que se desvanecían privados del sentido entre las losas que poblaban el suelo. Recuerdo como si ahora mismo estuviese sucediendo, y nunca jamás, tal injusticia, endiablada cobardía, y canallesco asesinamiento de gentes, muchas de ellas tan inocentes como este pequeño, que la misma ley que asesinó a su padre, le está martirizando ahora, precisamente ante la presencia del cura, que es el dueño de la mitad de la aldea, y de este indeseable de cacique, que domina entrambas partes, y de todos vosotros que llenos y dominados por el miedo, os olvidasteis de defender todo lo bueno y hermoso, por lo que vuestros hombres lucharon y murieron). (¡Sí recuerdo aquellas canallescas comunicaciones que se hacían en la cárcel de Oviedo, y que ya nunca podrán borrarse de mis sienes, mientras que la vida me acompañe!). Recuerdo perfectamente cómo todas aquellas gentes escuchaban a mi madre entre asombrados, y compasivos, entre temerosos avergonzados y ofendidos, y quizás hubiesen escuchado muchas más injusticias que habían hecho no los caballeros y valientes soldados, que denodadamente lucharon hasta conseguir la victoria, ni tampoco las juventudes que militaban en el partido triunfador, sino las gentes maduras, caciques que habían conservado la vida en entrambos bandos, que llenas de un odio vengativo y endiablado, habían hecho ellas más muertes criminales en la paz de la posguerra que todos los leales luchadores de enemigos bandos. Digo yo que mi madre con su cordura de mente les hubiese seguido acusando, si el cura, muy oportuno y diplomático, como son todos los religiosos de carrera larga, no se ausentara sin decir palabra, y ordenara al sacristán que tocase la última campanada, para entrar a la iglesia con el fin de escuchar la misa. Y ahora diré, que mal dicho está que yo diga que el sacristán tocase la campana, porque no había tal campana, ni en la iglesia de mi aldea ni en ninguna otra en todo el valle, ya que los rojos, se las habían llevado todas, no sé con qué fin ni propósito, como tampoco puedo comprender porque quemaban los santos que jamás les harían ningún daño, y dejaban con vida a indeseables como los caciques asesinos de mi aldea. Lo cierto es, que como campana de la vieja iglesia de mi aldea, había un trozo de raíl colgado del pórtico con una alambre, donde aporreaba el sacristán, con un martillo medio deshecho de los de cabruñar la guadaña. Nada más que el toque comenzó hacerse sentir, fueron las gentes desfilando tras la llamada de la postrera campanada, sin que nadie se osara replicarle a mi madre ni tan sola una palabra, bien fuese de desagrado o de conformidad con cuanto había enardecidamente manifestado. Todos se adentraron en la casa del Señor donde yo creo, que si el Nazareno pudiese apoixase (apearse) de la Cruz, no dudo que a todos ellos una tocata de barganazus les esfargayara. (Paliza de palos que en ellos prodigara). Dejó mi madre de reñir a voz en grito, pero siguió haciéndolo muy quedadamente, a la par que con gran remango recogía su cesta, que colocándola esta vez debajo el brazo, nos encaminamos para nuestro lar, mientras que aquellas gentes, culpables unas e inocentes las otras, le rogaban a Dios, los unos por sus pecados monstruosos ya cometidos, que en El no habían pensado cuando los ordenaban, los otros, quizás le pidieran paz y prosperidad para ellos, sus cosechas y ganados, pero Dios no escucharía ni menos ayudaría, ni al pecador tal vez arrepentido, ni al inocente libre de pecado, y lo sé por propia experiencia, porque yo, tantas veces le he llamado, suplicado y rogado, siempre a cuestas con el temor, la miseria y el desprecio que el mundo en mi había sembrado, y jamás El se dignó ni tan siquiera escucharme, porque si me hubiese escuchado, y no remediara con prontitud ni nefastoso sufrimiento, yo diría ya sin el menor equívoco, que el Dios que todos tememos y adoramos, no es nada más que un diablo. Y esto sin lugar a dudas es así, porque Nuestro Señor está harto de nosotros hasta la misma coronilla, y por eso pensó ya en inmemoriales tiempos, que o liquidarnos a todos, y olvidarse sin pena y con prontitud del mal invento que había industriado, o dejarnos vivir a nuestro aire, sin preocuparse ya para nada de nuestros haceres, hasta que la muerte nos lleve a su presencia. Caminaba yo detrás de mi madre, sujetándome con la mano mi dolorosa y sangrante oreja, que más doloroso sufrimiento me había reportado, cuando aquel imbécil y canalla de guardia me la había retorcido, que si me hubiesen molido todo mi cuerpo a palos. Llegamos a la postre a nuestra humilde casa, y siempre sin parar de reñir mi madre, de maldecir y de amenazar, estongóu 'l llar (limpió la cocina) de añejas cenizas, y con la rapidez con que ella solía hacer las cosas, tizóu ‘l fuéu (prendió el fuego) y después, puso un cazo lleno de agua con sal y unas hierbas (que ahora no sé cómo se llaman, pero que son muy buenas para las heridas) a hervir, y mientras que hervía, s'encaldóu nel trabayu de pulgar patacas (se hizo en el trabajo de mondar patatas), de las que había traído de la aldea de donde venía. Cuando el agua estuvo en su punto, que fue en el momento que ella terminara de aliñar las patatas ya listas para ser fritas, se dispuso mi madre a curarme, y al tenor que lo estaba haciendo, y viendo yo en su rostro retratado el cariñoso sufrimiento que por mí sentía, ella como siempre intentando disimular toda emoción, me preguntó dando muestras de un enfado cariñoso, ¿que qué era lo que había sucedido, o en qué líos me había yo alojado, para que los guardias me hubiesen puesto el rostro como un Ecce Homo? —Díjele a mi madre que el guardia no me había hecho nada más que estrapayáu l'uréa (deshecho la oreja), y que las otras heridas me las proporcionara el amo Manín, por las causas del condenado cabrón que ustedes ya saben. —Vi cómo las recias manos de mi madre temblaban al tenor que a mis heridas con aquella agua milagrosa me lavaba, sentí cómo su voz enardecida juraba y perjuraba contra aquel Manín de los infiernos, al cual ella decía, le iba a colgar la foiz (hoz) del pescuezo. Dio por terminada mi cura y en instantes me preparó la comida, que consistía en un buen cazo de patatas fritas con grasa de tocino, un gran cantezu (pedazo) de pan de escanda, y un escudiecháu de lleiche con borona (taza de leche con pan de maíz), y ya fartuquín fasta ‘l rutiar (harto hasta el eructo), preguntele que si podía ir a dar una vuelta por la aldea, a lo que ella me respondió afirmativamente, recordándome con amenazas, el que non m'engarricra con lus oitres rapacinus. (Que no me pelease con los otros niños). Cuando me dirigía al lugar donde todos los chicos por costumbre teníamos de reunirnos para enredar (jugar), en una de las callejas de mi aldea, me topé con Pelayu, que seguramente habría abandonado a su amo en el monte, por el extraño de no verme a mi como sucedía siempre. ¿Porque qué animal o persona con sentimientos nobles y cariñosos, podría vivir en la soledad del monte en la compañía de una repugnante bestia, como lo era Manín nuestro amo...? Viome primero Pelayu que yo a él le avistara, y casi estoy por asegurar, que me había olfateado antes de que yo desembocara en la calleja, donde él buscándose la vida por todos los rincones husmeaba. Porque yo jamás había visto a Manín, darle al pobre de Pelayu de comer nada, ya que Manín solía decir dándoselas siempre de razonero eficiente, que el perro no se le podía dar la esllaba óu llabaza de fregar lus cacíus (las aguas sucias residuos de lavar los cacharros de la cocina) porque estaban los bracus na cobil urniándu per llapalas (cerdos en el cubil gruñendo por tomarlas), que al perro lo único que se le podía dar, era aquello que no tuviese aprovechamiento para nada, como les llixes de les vaques cundu betchaban, de las uvées ya les cabras, óu cuallesquier oitra molicie que paque nún fediera menester yera encuandiála (como las libraduras de las vacas, de las ovejas y las cabras cuando parían, o cualquier otra porquería que para que no oliese mal, fuera necesario enterrarla). Vino Pelayu hacia mí envuelta su alma perruna por una gozasa alegría, pero me di cuenta con pena profunda, que no hacía tal acercamiento dentro del desenfado y gracial camaradería que en todas las ocasiones él conmigo usara, pues por primera vez mi buen Pelayu, para acercarse a mí, rastreramente se arrastraba, no era por el miedo de que yo le apaleara, ya que jamás ni de palabra le había ofendido, era sin duda porque se sentía muy avergonzado de haberme abandonado la pasada noche, cuando tan triste y solo me encontraba, y quizás más le necesitara. ¡Pobre Pelayu! ¡Qué alma más humana tenía, y a cuántos humanos, el alma de los rabiosos perros les dirigía! Me agabuxé (agaché) a su lado, envuelto yo por una sana, jovial, y angelical alegría, le besé su rostro varias veces entusiasmado, y acaricié con gozo su fino y sedoso cuerpo, y olvidándonos entrambos él de su cobardía y yo del rencor que pudiera por su gesto guardarle, nos fusionamos en un abrazo risueño y cariñoso, donde él dando pequeños ladridos por los que manifestaba su alegría y pena, me lamía una y mil veces las heridas que adornaban mis mexietchas (mejillas), y quizás se estuviese jurando, que aunque le costase la vida, nunca de mi lado se alejaría. Toda aquella tarde, estuve jugando al «llanque» y a la «palombietcha» con el único amigo de verdad que en la aldea tenía que se llamaba Muel. Pobre amigo mío, murió cuando apenas tenía veintiocho años, reventado por el más duro y esclavizante trabajo, que desde su niñez y en mi compañía, fustigados por el hambre y la necesidad, entrambos y dos a las severas órdenes de su padre, como serradores en casi todos los montes de mi Asturias, habíamos llevado a cabo, al final, su cuerpo ya deshecho, explotado y gastado, fue consumiéndose en la triste soledad del sanatorio del Naranco, donde murió devorado por una tisis galopante. Tenía Muel dos o tres años más que yo, y sin embargo éramos los dos de la misma estatura, y empezamos a serrar madera manualmente los dos en el mismo día, teniendo yo en la sazón, tan sólo trece años, fue nuestro maestro su propio padre, y nos trataba como nadie se puede imaginar, ya que no había día, que no nos untara ‘l focicu (nos azotaba) por lo menos un par de veces. No es que aquel hombre y excepcional trabajador fuese malo, no nada de eso, es que el pobre precisaba por fuerza mayor, para poder desarrollar el duro trabajo del serrador, que nosotros hiciésemos el trabajo de hombres y no éramos nada más que dos niños. Digo yo que aquella tarde, le conté a mi amigo Muel, como había encontrado en la montaña la cueva de las armas, y así hablando de nuestros proyectos, acordamos que al día siguiente subiríamos hasta ella, para jugar hasta cansarnos con aquellos juguetes de verdad. Así es que a la oscurecida retornamos cada uno para su casa, saboreando por adelantado lo felices que al día siguiente habíamos de ser. Caminaba en pos de mí, tan contento y satisfecho como siempre mi buen Pelayu, sin preocuparse para nada de que él, era un esclavo de Manín, y no un ser libre que pudiese hacer lo que más le conviniese, pero al llegar a la esplanada donde asentada estaba la bolera, lugar clave donde se reunían todos los vecinos de la aldea, después que concluían sus trabajos, bien fuese para charlas y cambiar impresiones, o para jugar unas partidas a los bolos, como cuento, allí estaba Manín, en diálogo con unos vecinos, ya de retirada para su casa después de haber encerrado las cabras, cuando vio a su desleal Pelayu, que muy contento y moviendo con gran felicidad su rabo, me acompañaba a mí, como si yo fuese en vez de él su amo, dejó a su contertulio con la palabra en la boca, y cambiando su pacífica charla por la riña loca, embistiome a mi con ofensiva y pecaminosa palabra, al mismo tiempo que con la vara que portaba en su mano, descargó sobre el confiado Pelayu tal varazo, que a quedarse el pobre tan sólo un segundo condoliéndose del acuciante dolor que en su cuerpo se anidaba, seguramente que hubiese llevado sobrada ración de varazos, que fácil la dejarían sin vida in situ. Pero no hizo tal cosa mi buen Pelayu, sino que salió huyendo como alma que se lleva el diablo, lanzando en el aire ladridos, que yo creo que no eran por el profundo sufrir que le proporcionara el castigo, sino que en su lenguaje, seguramente maldeciría aquella bestia con figura humana, que era capaz de azotar despiadadamente a un inocente niño, o de asesinarle a él mismo, que no se encontraba con más culpa, que de despreciar a su amo, por canalla y miserable. Y lo propio que Pelayu hizo, no lo dejé yo para más pensado, y a la vez que me perdía en la carrera, huyendo de aquel reptil repugnante y asqueroso, recuerdo que con rabia enloquecida yo le dije: ¡Fíu de put, baldreyu, llimiagu! (Hijo de puta, cobarde, rastrero, baboso..., etc., etc.). Pero miren ustedes por donde, estaba mi madre allí cerca en casa de una vecina hablando de sus cosas tranquilamente, cuando al sentir al Manín que me ofendía, al perro ladrar por la caricia que había recibido, y a mi insultándole poniéndole como un pingayu (de lo peor), salió mi madre de casa de su vecina, con todos sus muchos ánimos aviesporáus (envenenados, aguijoniantes), y cogiendo un palo que allí a mano había, bien seco y sudado, porque hiciera su servicio sirviéndole de mango a una fexoria (azada), se dirigió con extrema rapidez y silenciosamente al lugar donde Manín estaba, y sin decirle ni una sola palabra, empezó a darle palos con aquel formidable mango, que la suerte a Manín le cupió de que nuestros vecinos la detuvieran, porque sino, creo que le hubiese matado. «LA MULTA O EL REFORMATORIO» Al día siguiente, mi amigo Muel, yo y Pelayu, subíamos alegremente hacia la montaña, con locas ansias de llegar pronto a la cueva, con el infantil y firme deseo, de jugar hasta saciarnos con aquellas armas, recuerdo a mi querido amigo, futuro candidato al igual que yo, a la penosa esclavitud que como serradores nos aguardaba, la veo con su sana sonrisa, pintada en sus pequeños y vivarachos ojillos azules, acariciar una y otra vez, con una alegría inmensa aquellas armas, no existía para nosotros en el mundo, en aquellos felices momentos, nada que pudiésemos apreciar tanto, como aquellos mortíferos juguetes, de los que en la sazón, éramos los únicos señores y dueños, nos hallábamos fuera de la cueva, enredando cada uno con su escopeta, y una canana repleta de cartuchos colgada del hombro a la bandolera, Pelayu, desentendiéndose de nosotros mitigaba su hambre cazando grillos y mariposas, o cualquier otro insecto que plugiérale y fuérale rentable para entretener su enflaquecido estómago. Después de cansarnos de hacer la instrucción marcando el paso con la escopeta al hombro, emulando a los soldados cuando hacían prácticas en nuestra aldea, yo le dije a mi amigo señalándole el lugar, que desde aquel mismo sitio, yo había tumbado de dos certeros disparos al cabrón de mi amo. Muel, sacando dos cartuchos de la canana y metiéndolos dentro de la recámara de su escopeta, me dijo que él también pudiera haberlo hecho, y para asegurármelo de que no marraría el tiro, me señaló una piedra rojiza que había muy cerca de donde muriera el chivo, y a la par que se ponía la escopeta en el hombro para materializar lo que había asegurado, me decía ilusionado: —¡Fíxate Xulín!, ya veras cómu la desfaigu nun fatáu de cachiquinus—. (—¡Fíjate Julín!, ya verás como la deshago en mil pedazos—). El doble disparo retumbó dentro del natural silencio de la montaña, como si se tratase de un ruidoso trueno de las tormentas de los veranos, las águilas y los cuervos, así como todos los pájaros y animales que moraban por aquellos aledaños, moviéronse de sus lugares, graznando las aves al levantar el vuelo, y quizás las alimañas agudizasen al oído para saber el peligro que pudiese traerles aquel espanto. Hasta Pelayu dejó su caza insectívora para ladrar desaforado, como si presintiera que otro cabrón había sido abatido, que le haría de nuevo volver a hartarse, o tal vez nos estuviese reprimiendo, queriendo con su lenguaje decirnos, que aquella xuxeante folixa (crecido ruido, alegría, juerga, etc., etc.) que tan amanicomiadamente entamábamos (enloquecido ruido que hacíamos) no iba a reportarnos buenos resultados. Lo cierto fue que mi querido amigo Muel, no atinó a deshacer aquella rojiza piedra contra la que había disparado, y yo alegrándome por su fracaso, cargué con rapidez mi escopeta, me la puse en el hombro, y disparé contra aquel blanco otros dos disparos, tampoco pude yo hacer puntería, y él mofándose de mí, cargó de nuevo su escopeta con notoria alegría, a la vez que me aseguraba que de aquella no fallaría, volvía a disparar sin importarle para nada el tremendo culatazo que nos solían dar aquellos guerreros artefactos. Y así, una y otra vez, atenazados por un gozo y felicidad que nunca con tanta fuerza a nuestros juveniles espíritus había con entera libertad creado, disparábamos con alegría ilusionada contra aquel aproxetáu cuctu (enrojecida piedra), creyéndonos guerreros invencibles, o cazadores afamados. Muy posible yo me creyera un jefe poderoso, justiciero y honrado, que cada disparo que hacía, l'eszarapaba les vidatches d'uno de lus baldreyus homes, que habíen achuquináu ‘l miou padre. (Le deshacía las sienes de algunos de los cobardes hombres que habían asesinado a mi padre). Lo cierto fue, que tras de quemar veintitantos cartuchos cada uno, la piedra seguía en su sitio, y nosotros un poco desilusionados, hicimos un pequeño descanso, en el que acordamos cambiar de blanco. Disponíamos de nuevo hacer más atinadas prácticas sobre el rugoso y fuerte tronco de una encina, cuando Pelayu salió de junto nosotros y con apremiante prisa ladrando, contra un intruso que nos visitaba, guiado al parecer por el atronador ruido, que con nuestros alegrativos disparos formábamos. Era nuestro mal recibido visitador un rapazacu (mozalbete) que andaba por aquellos montes a la caza de la perdiz, que había endemasía nutridos bandos, que bajaban a veces hasta los sembrados d'arbeyinus y'oitres semáus (de guisante y otros sembrados) más alejados de la aldea, y ni el gran espantapáxaru tenía llixa de xebrayus (espantapájaros tenía fuerza para espantarlos). Jerónimo se llamaba aquel jovenzuelo indeseable, que había heredado de su padre toda la cobardía y males tales, que muchas gentes de mis lugares, le estarían rabiosa y odiativa, despreciable y asquerosamente maldiciendo, hasta que el Hacedor les llevara de este mundo tan poco lleno de humanidades. Era hijo de este sujeto tan maldecido, cacique de mi aldea con vuelos tales, que no del todo satisfecho con enviar para el otro barrio algunos de sus inocentes convecinos, en el acaecer se dedicaba, a que a sus vecinos la ley, que había, muy moldeable para dar por buenas todas las denuncias avaladas por caciques facciosos como él, se ensañara con crecidas multas, que al no tener dinero la gente aldeana para satisfacerlas, tenían que vender parte de sus ganados, y sabedores los tratantes por ser lobos de la misma camada aunque con diferente collor (color), que los campesinos tenían que vender sus reses con abonda priexa (mucha prisa) para satisfacer aquellas multas antes que se enrodietcharen (enredaran) peores males, pues como cuento, aquellas aves de rapiña de tratantes, se unían todos de tal manera, que lograban desbaratar los mercados hasta tal punto, que más que comprar, lo que hacían, era robar dentro de la ley a los aflijidos y siempre maltratados campesinos. Al quedarse los desdichados aldeanos sin sus ganados, por la causa de aquellas multas, que la verdad era nadie sabía que era lo que castigaban, aquellas asesinantes multas que la ley les inxertaba (injertaba), que les hacía dentro del acuciante temor que en aquel lleldar (ácaecer) era aterrante, deshacerse de sus ganados para pagar tan diabólicas y desnaturalizantes sanciones. Y como los campesinos, por lo menos en todas las embrujadoras aldeas de mi melgueira tierrina (dulce tierra), y me supongo que tal sucederá en todas las aldeyuelas del mundo, sin ganados de tiro no pueden trabajar sus erus (tierras), tenían que por fuerza mayor, agenciárselo aunque fuese dentro de las más viles condiciones, y así, el canalla de cacique de mi aldea, daba vacas, yegüas, cabras, y ovejas a la comuña (condición) que tan sólo el agobio de la desesperante necesidad hacíales aceptar, con lo que se condenaban a ser esclavos de un ganado que no era de ellos, siendo en la mayor parte de las ocasiones las ganancias completamente nulas, pues si una res se moría, se despeñaba, la mataban los lobos o la devoraba el oso, no la perdía el dueño, sino el comuñero, y así, de esta miserable forma, este canalla de cacique, explotaba vilmente a muchos campesinos que por imperativa necesidad, eran comuñeros de este indeseable asesino, que no había hecho la guerra en las trincheras, porque su cobardía era tan grande, que le había obligado a pasar toda la contienda escondido en los montes, y ahora que la guerra ya terminara, era cuando él verdaderamente la hacía, en la entristecida y enlutada paz que poseían las gentes de mis aldeas. ¿Cuántos despreciables seres como este nefasto individuo había en mi Patria... ? ¡¡Yo creo que honradamente debemos todos de reconocer, que había un par de ellos en cada aldea, y en las villas y ciudades me supongo que morarían muchos más!! Cuento que llegó el Jerónimo con su escopeta al hombro acompañado de su perro perdiguero ante la nuestra presencia, y ufanándose altaneramente quizás pensando que nos iba a hacer, lo que le diera la gana, nos dijo con apariencia muy enojada, al mismo tiempo que nos ofendía con sus palabras: ¡Haber decirme pronto, ¿dónde habéis robado estas escopetas?, si no queréis que vos falague ‘l llombu con ista bardiaca! (que nos moliera a palos todo el cuerpo con una vara que portába en sus manos). No despegó sus labios en el momento mi amigo Muel, porque el padre de aquel llabasquín (cerdo pequeño) era el dueño de los ganados de su casa, y por aquello de que el amo siempre, sin la razón con la ganancia anda, no le refutó pequeña palabra. Pero yo que ya me había creído que aquel babayu de guaxón (farolero, fantasma de mozalbete) se iba apoderar de mis armas, las que yo creía que eran de mi entera propiedad, le dije sin miedo y desafiantemente, que aquellas escopetas eran mías, y que ni él ni nadie sería capaz de quitármelas. Entonces Jerónimo mirándome acusadoramente me replicó seguidamente con estas palabras que me condenaban: ¡Entonces... tu fuiste el que mató antes de ayer al chivo de Manín? ¡Si yo fui!, le dije envalentonado y poseído de una airada rabia, a la vez que le encañonaba con la escopeta y amenazándole firmemente le aconsejaba: ¡Fáinus el favore de dexanus nel nuexu antroxu, ya colar pel mesmu xeitu per únde sen chamate 'llegasti, se nun quiés que faiga nel tou ventrón, el mesmu buracu quei fexe nus fégadus del cabrón de Manín! (¡Haznos el favor de dejarnos con nuestra alegría, y márchate por el mismo sitio, por donde sin llamarte has llegado, si no quieres que haga en tu barriga, un orificio parecido, al que le hice en los hígados del cabrón de Manín!). —Y fue entonces cuando Muel valientemente apoyándome con su amenazante escopeta y con sus advertientes palabras le dijo: ¡Mira Jerónimo, no tiene nada que ver que mi padre se arrastre frente a vosotros, por el miedo de que le quitéis el ganado, pero yo ahora no soy mi padre, y si no sales en el momento corriendo como una exhalación (centella, rápido), me parece a mí, que te vamos a coser a perdigonazos! Justificándose Jerónimo con el atropello que en el miedo se cosecha, dio media vuelta y casi a las carreras, tomó las de villadiego, a la par que se alejaba murmurando no se qué amenazas. Su perro, quedose unos instantes olisqueándose con Pelayu, al que yo achuché (azuzé), y Pelayu que para engarradiercharse (pelearse) era una ardorosa fiera, saltó como un león, atacando con un furor endemoniado al fino can perdigonero, y si no es por Muel, me parece que allí en el mismo lugar que había muerto el chivo, Pelayu hubiera despachado, aquel hermoso, cariñoso e inocente perro. Quedámonos muy satisfechos y gozosos, a la par que en nuestros espíritus, navegaba el orgullo perfumándose con la vanidad Humana, y todo, por haber acoyanáu ya féchule moscar ameruxáu de miéu (acojonado y haberle hecho huir, lleno de miedo) al hijo de uno de los amos de la aldea, que en un principio se había creído, que le sería sencillo hacer con nosotros cuanto le viniese en gana. Durante algún tiempo, estuvimos llindiándu (vigilando, cuidando) a Jerónimo por ver el camino que se tomaba, pues teníamos el temor que se ocultara para después sorprendernos, pero no fue así, y al final muy contentos ya le vimos corriendo que se las pelaba en compañía de su perro, desembocando en el pedregoso camino que le conducía a la aldea. Sabiéndonos libres del temor del adefesio de Jerónimo, y olvidándonos en el mismo instante de cuanto con él nos había acontecido, volvimos a nuestro peligroso juego, de disparar las escopetas contra diferentes blancos, y así, hablando de nuestras cosas con satisfacción que nos embargaba dentro de una felicidad pasajera, deslizábase el tiempo sin enterarnos, hasta que a la postre, dimos fin a todos los cartuchos que teníamos, y fue entonces, cuando decidimos esconder las armas en la cueva, y con los hombros doloridos por las sacudidas que nos propinaban las escopetas por los disparos, disponíamosnos muy contentos en el regreso para nuestras casas, y para simular que veníamos de la leña, agenciámosnos unos tochacus de pochiscus (leños de encina) y poniéndonoslos al hombro, bajamos corriendo por entre los vericuetos y las serpenteantes sendas, hasta llegar al camino real que nos conduciría a la aldea. El ubérrimo valle de alegría alborazada, que poblaba por entero nuestros espíritus, viose en unos segundos nublado y con rapidez cubierto, por un zozobrante y temeroso manto, nacido del retrato que nuestros ojos hicieran, cuando a la entrada de la aldea, justamente en el mismo lugar donde por costumbre, mi amo solía esperarme para xebrar (apartar) sus cabras, estaban aguardándonos los guardias, en la alegre compañía de Jerónimo, que poseyendo las mismas indeseables zunas (costumbres) que su padre, no había perdido ningún tiempo en ir hasta el cuartelillo para delatarnos. Yo tentado estuve cuando me percaté que eran los mismos guardias que el día anterior me habían cobardosamente martirizado, de tirar los garbetus (leños) que llevaba en el hombro, y salir corriendo para huir de aquel verdugo que sonriéndose ladinamente, quizás estuviese pensando su enrevesada y nefastosamente, el volver a esforgayame (arrancarme, estriparme, deshacerme) la única oreja que me quedaba sana. Sin embargo, logré dominar el miedo, y dejando a Muel que abriera la marcha, llegamos a la postre ante la presencia de ellos, y aquel canalla de guardia, no se dirigió a Muel a pesar que unos metros delante de mí iba, sino que vino sonriendo malignamente hacia mí, con las mismas asesinas intenciones que el hambriento lobo lleva, cuando para satisfacer sus ansias del espíritu y la carne, sin el menor miedo se lanza, sobre el inocente corderillo que no tiene a nadie que le defienda. Antes de dirigirme la palabra, aquel demonio con tricornio, que a fe mía desprestigiaban, porque hermosa para el pueblo es la esclava de la Justicia, cuando todas sus obligaciones y credos justamente da cumplidas. Digo yo, que lo primero que hizo fue cogerme mi oreja sana, apretarme un poco para ponerme en atención, y luego mirándome altanera y sonrientemente me dijo: ¡Ahora ya no me negarás de que no has sido tu quien disparó sobre el cabrón de tu amo, y me supongo que también me dirás, dónde has conseguido las armas, maldito pilluelo, hijo de una bruja y de un rojo republicano, o comunista sin entrañas! Tiré los tochucus (leños secos) al suelo apremiado por el dolor que de rabia me desencaldaba (deshacía), con tan mala fortuna que por mí no había sido pensada, que diéronle en las piernas de aquella fiera uniformada, y gran dolor en él tuvo que lleldarse (hacerse), porque dejó de esfarugarme (deshacerme la oreja), para acariciar con gestos de dolor la caña de una de sus piernas, al mismo tiempo que yo hacía lo propio con mi oreja, que ya colorada como una guinda, me resquemaba como si estuviese ardiendo. Mirome con ojos extraviados por la rabia que le enloquecía, y siendo mayor la fuerza de su cobardosa entraña ya en poder de las iras que lo movilizaban, que el dolor que su cuerpo sentía, soltome de revés dos guantazos, que dieron conmigo en tierra, con el rostro manando abundante sangre. Fácil siguiese abofeteándome, pues ya estaba enclicándose (agachándose) para hacer conmigo vayan ustedes saber qué, cuando intercedió su compañero que asiéndole por un hombro, con desprecio y enfado le dijo: ¡Lo que terminas de hacer con este pequeño es una canallada, y como otra vez intentes tocarle del pelo la ropa, te las vas a entender conmigo! ¡¡Estoy harto de tus abusos, y de tus odios y desprecios por todas las gentes desgraciadas!! Ayudome aquel buen guardia a levantarme, y después con su propio pañuelo limpiábame el rostro de sangre, y al parojo que esto hacía cariñosamente me decía: ¡Te juro que nadie te volverá a martirizar más pequeño, y ahora si tu quieres, y que conste que ni te ordeno ni te obligo a contarnos nada, dinos de una vez dónde están esas malditas armas que tanto doloroso daño te han originado! Dime cuenta pronto que de seguir negando no sacaría en limpio nada, ya que el baldroyán (cobarde) de Jerónimo había descubierto ya todo, y a poco listos que fuesen, nada más que les conduciese al lugar donde nos había sorprendido, darían pronto con la cueva, donde se ocultaban las armas. Así que acompañado de Muel y de Pelayu, y seguido de cerca por los dos guardias y el delator de Jerónimo, guielos a paso rápido por entre las vegetativas y pedregosas sendas que serpenteaban por casi inaccesibles lugares, pronto me alegré al comprobar cómo aquel despreciable guardia que tan sañudamente me había martirizado, abarquinaba (respiraba) con penoso trabajo, al mismo tiempo que se deshacía en copiosos sudores el condenado, lo mismo que la manteca fresca expuesta al sol en el verano. Al observar el penoso esfuerzo que aquel guardia repugnante y gordo, imbécil y malvado, tenía que realizar para seguirnos, apreté más aun el paso, que casi se convirtió en carrera y que sólo Muel y Pelayu pudieron aguantarme alejándanos en cuestión de segundos un largo trecho de nuestros enemigos, que en el lleldar (acontecer), ya se habían detenido para hacer acopio de energías unos momentos. Aproximadamente aun no habíamos caminado ni una décima parte del trayecto que nos separaba de la cueva, y ya el llimiagu (baboso) de aquel guardia, se encontraba casi d'afechu despaxaretáu (deshecho), seguramente que antes de llegar al final, en la mente de aquel fucheiru (estercolero) humano, se dibujaría el ruin pensamiento, de maldecir a la ley que como enyordiáu pioyu (sucio piojo) servía, al cachiparru (parásito) que me había delatado, y a mí, por no haber seguido negando. Muel y yo con satisfacción nos reíamos de aquellas gentes, que en nuestras infantiles y sin cultivar mentes, habíamos retratado como personas que tenían menos llixa (fuerza, arte, valer, etc.) que un mure entre las zarpas de un gato. Estaríamos como a la mitad de la andadura, cuando la distancia que nos separaba ya era enorme, y a pesar que de continuo nos ordenaban que no corriésemos tanto y que procuráramos ir siempre a su lado, la verdad es, que ya les habíamos perdido todo miedo y que no les hacíamos el menor caso. Fue entonces cuando se me ocurrió la idea de decirle a mi amigo Muel, que cuando llegásemos al potchisquéiru (encinal), yo me adelantaría corriendo con todas mis fuerzas, para volver aquel mismo lugar antes que ellos lo hicieran, pero después de haber ya ido a la cueva, para poder esconder para nosotros, dos pistolinas muy atongadetas (bonitas, curiosas), que era una pena que se llevaran los guardias, y que nosotros podíamos esconder en cualquier lado. Y así lo hice, y logré regresar, mucho antes de que ellos, llegaran escadriláus (derrengados), claro que descontando a Jerónimo, porque éste andaba tanto como con la lengua si quisiera andarlo. El caso fue que los guardias aquel día se llevaron las armas, y a los cinco o seis días, regresaron a la aldea preguntando por mi madre y el padre de Muel, para llevarles hasta el cuartelillo, con el fin de no sé qué preguntarles o darles. Cuando mi madre en compañía del padre de Muel regresaron del cuartel, estábamos nosotros xugaretiándu (jugando) debajo del ñoceón (nogal grande) que había a la entrada de la aldea, que tanto como tenía de frondoso y grande, eran de pequeñas, escasas e insípidas sus nueces. De donde viene un adagio asturiano que dice: ¡Mucher grandie ande óu non ande, peru tantu s'espatuxa, comu senún lu fixera, en dalgún lláu fae bona atongadura! (Mujer grande, ande, o no ande, pero tanto si camina, como si no lo hace, por grande en todos los lugares estorba). «Claro que se me olvidó decir, que menos en el catre, para añuedar el cibietchu cundu nun hay oitra, pequenina, atongaina ya melgucira». (Para hacer el amor, cuando no hay otra, pequeñita, bien hecha, y tan dulce como lo que debe ser vivir en la gloria). Digo yo que al ver nuestros padres corrimos hacia ellos, y cuando ante su presencia nos encontramos, casi sin darme cuenta vi a mi amigo rodar por el suelo, por la fuerza vigorosa del tremendo castañazo que su padre le llantó nuna mexietcha (le plantó en una mejilla), pero antes de que yo me percatara del peligro que sobre mí se cernía, vime acochetáu (cojido, sacudido) por mi madre, que me allumbróu (alumbró) un mamplenáu (muchos) pescozones, tan seguidos y atinados, que me parecía que todos me llegaban en ringlera, no teniendo que esperar uno por el otro, para que no se enfadasen ninguno. Y allí mismo por este procedimiento que nuestros progenitores nos hacían, comprendimos que nada bueno los guardias a nuestros padres les habían hecho. Y claro que no era nada respetable ni justo, sino un atropello despiadado, inhumano, mezquino, repugnante y apartado de la Justicia a tanta distancia, como la que existe desde la Tierra hasta el Infinito Cielo. Resulta que la canallesca ley que en aquella para mí inolvidable época existía, nos había condenado a ir a un reformatorio, o a que pagasen nuestros padres una multa de ciento cincuenta pesetas en papel del Estado, en el término de treinta días. Y fue entonces cuando yo empecé a preguntarme, ¿que qué era lo que tenían que reformar en mi...? ¿Acaso entraba en la reforma que aquella ley que estaba por todos los rincones de la Patria haciendo encima de los vencidos y sus descendientes, asesinar a nuestros padres, hermanos, parientes y hasta madres, privarnos de nuestra libertad, y robarnos cuánto teníamos? —¿Aquella ley digo, todavía tenía que reformar algo más en mí, que en un principio ya no hubiese inhumana y endemoniadamente reformado? Yo que era en aquel lleldar un pobre niño de poco más de ocho años, condenado precisamente por la misma ley, a no tener jamás ya el amoroso cariño de mi padre, yo que había sido condenado como todos los jóvenes hijos de los vencidos y encarcelados y asesinados padres, yo que estaba lleno de hambre, de miseria, de sufrimiento y de una soledad inconsolable, yo que si quería comer un trozo de pan duro, tenía que caminar descalzo y medio desnudo, por entre las zarzas y guijarros de las montañas, esclavizando mi cuerpo y mis sentidos, en el cuidado de unos ganados que no eran míos, a mí, a un ser así de natural, puro, desamparado y desgraciado, ¿aún quería aquella entroyada (sucia) ley reformarme por considerarme malo? —Yo nunca he sido político, pienso ahora, ni tampoco con mis palabras harto vulgares y aldeanescas, pretendo fomentar el odio hacia nadie, soy ante todo un liberal disciplinado, que ama a mi Patria, por la que estoy en cualquier momento dispuesto a morir, pero me creo con el suficiente derecho de contar al mundo de cuanto yo he sufrido, que es el retrato de tantos otros huérfanos de guerra que lo mismo que yo tanto sufrieron, aunque más en duda, pongo que lo hubieran hecho, quiero contar todo lo que considero que siendo verdad, no debe ser olvidado, y desearía con toda mi alma, que mis palabras tuviesen repílos (ecos) más clarividentes, que los que en su origen se formaron, para que llegasen a todos los oídos, y en sus mentes gigantesca Humanidad digna y justa edificasen, que diera paso a una libertad liberal y disciplinada, que atrancase (cerrase, peslase) sus puertas a todo cuanto no fuese digno y honrado, de esta sencilla y natural manera, la fraternidad sería por primera vez, el tesoro más puro, luminoso y deseado, que la Humanidad en toda su existencia hubiese conquistado. En este relato, que para muchos críticos comedores, que sólo saben fartase comu gochus (comer como cerdos) e intentar con sus medios deshacer lo que alguien con más capacidad creativa que ellos, más bien o peor ha edificado, digo yo, que muchos críticos fanáticos defensores de normas idealísticas, que con sus leyes en la ocasión asquerosamente convencionales, que lograron deshacer el destino que a mi vida creo que le pertenecía, al igual que a toda la generación de los hijos de los perdedores, no les agradara en absoluto, que un hombre que fue despojado de cuanto poseía, y empujado vengativa y canallescamente al arroyo, cuando él por ser un niño, no podía defenderse, tenga ahora la osadía, con sus pobres medios culturales, d’abayucar la trelda (revolver la porquería), que nadie hasta el presente, tan ajustada y verídicamente pudiera contar jamás. Digo porquerías, pues es eso precisamente lo que suelen dejar las secuelas de una guerra civil, y pobre de aquellos países que la sufran, porque sus hijos quedarán divididos, y los perdedores, tendrán que soportar un yugo, que más flojo, o menos prieto, esclavizándolos los ha de postergar. En este relato retrato yo, al vencedor y al vencido, menos al perdedor de quien soy hijo, ya que he tenido la desgracia de conocerle cuando el desventurado ya era un vencido, pero con el vencedor he vivido siempre, sirviéndole con decencia y honradez, silenciosamente observándole siempre, y no recibiendo de él, nada más que calamidades y ofensas, y sin embargo, nunca le odié, siempre disciplinadamente le serví, y si en el lleldar se siente ofendido por lo que de verdad digo, espero que se comporte conmigo, de la misma manera que con él siempre yo he hecho. Sé que estas narraciones no se han de publicar en mi Patria, porque la censura no permitirá que el hijo más humilde, cuente una verdad que denigra no a mi querida y noble España, sino algunos de sus inamovibles sistemas, pero tengo la firme certeza, que algún querido hermano país, sin el menor odio ni rencor sí ha de hacerlo, y con esta mi voz del pueblo, sencilla y natural, ubérrima y estéril, millones de seres de la Tierra habrán de saber, que hoy todavía, vive en mi Patria, la mitad de una generación, descendiente de los perdedores de la sanguinaria Guerra Civil que empobreció a la más maravillosa nación del mundo como es mi España, apartados de todo acceso a cualquier puesto de responsabilidad, bien en el gobierno, en los sindicatos, o en cualquier otro lugar, de responsabilidad de la Patria. Y desde aquí, invito a todos los españoles para que investiguen esto que he dicho, y ya verán como es una verdad, que no admite discusión posible. Cuánto placer sentiría yo si me pudiese expresar con ustedes en la maravillosa, ancestral y rica Lengua Asturiana, pues para mí, decir las cosas en Castellano es un verdadero fastidio, con tantos puntos y comas, y demás signos ortográficos, que para un hombre sin estudios de ninguna clase como yo, es una verdadera tortura, pues mi imaginación que idea y piensa con la fuerza de un enorme río enloquecido, a la hora de querer contar estas copiosas cosechas, que hasta en los mismos sueños me alumbra, cuando me pongo a escribir todos estos pensamientos y acaeceres, al expresarlos en español, meto la pata hasta los corbétchones, por esto ruego me perdonen, y háganse a la idea, de quién les está hablando, no es nada más que un humilde aldeano, sin más escuela que la siempre dura universidad de la vida. Y con la fortuna o desgracia de haber nacido con el embrujador duende de ser soñador, no por aparentar, por ocio o por estudio, sino con la intima necesidad que me tortura el alma, al mismo tiempo que me embarga dentro de una felicidad, que me hace en ocasiones ser dichoso, sin jamás haber sido feliz, y en otras dimensiones me llena de tal tristeza, que en apariencia sin sucederme nada, me encuentro tan apenado y deprimido, que todo cuanto me rodea y hasta yo mismo, me parece la pestilente porquería, con que se harta sin jamás hastiarse, el nefasto diablo al que entusiasmados y egoístas servimos. Enteponíu colaba you dellantre de miou madre, espatuxandu caleya adiantre, afalau per las engafuráes pallabres de miou má, camín de la nuesa teixá. (Conducido corría yo delante de mi madre, caminando rápido calleja arriba, arreado por las envenenadoras palabras que mi madre me dirigía, a la vez que hacia nuestro hogar nos acercábamos. Yo miraba arisco para ella, pensando que me iba alcanzar presto, para propinarme ante mis vecinos, otra somanta (paliza) como la que de aun mi cuerpo se condolía. Al fin llegamos a nuestra casa, y ya en ella encoyíu (encogido) por el temor, aguardaba resignado que mi madre calmara su furia dándome una nueva cuera, que mereciéndola, no la merecía. Estaba visto que llevaba unos días, que todos los golpes me habían elegido a mí para sus descansos, primero el cobarde de mi amo, que con sus asquerosas manos, me había puesto el rostro, tan descalabrado que no había en él un lugar sano donde coyera una guya (cupiera una aguja), después el canalla del guardia, que me dejara las orejas tan maltratadas, que me parecía que no eran mías, y para finalizar mi madre con aquella argurtóuxa tocata que m'apurriera (alta paliza que me propinara), que según me parecía, no había sido nada más que la parba (desayuno breve) de la que se esperaba Furibunda y desesperada asiome mi madre por mis maltrechos hombros, y al mirarme yo en sus hermosos y enojudos ojos, pude ver en lo más profundo de ellos, el desmesurado amor que la pobre me tenía, y lejos de azotarme como yo pensaba, sólo me preguntó muy apenada y preocupada: ¿De dónde vamos a sacar esas ciento cincuenta pesetas Xulín? ¡En alguna parte hijo, nos las agenciaremos, porque yo no permitiré que esta canallesca ley, hecha por indeseables sin entrañas, te lleven al reformatorio, donde ellos se tenían primero que reformar, para no seguir sembrando entre los desventurados vencidos, tanta vengativa y nefastosa canallada! Al día siguiente al rayar el alba, después de desayunar el rabón, (leche ácida cocida con harina de maíz) del que yo sí que me harté, pero ella la pobre apenas comió unas cucharadas, armada mi madre de un azáu (hacha) que había pedido prestado a un vecino, y yo de una foiceta (hoz) de podar la leña, fuimos al monte comunal a baltiar (cortar) leña, pues un carro de leña de encina, roble y espinero, que pesaba más de tres mil kilos, pagaba el maestro panadero, de la única panadería que había en el concejo, cincuenta pesetas por él, así que teníamos todo un mes por delante, para preparar los nueve mil kilos de leña, que nos proporcionarían las ciento cincuenta pesetas, con las que calmaríamos las iras de aquella inhumana ley, que tan despiadadamente nos había castigado. Parecía que mi madre poseía la fuerza del más intrépido de los hombres, talmente era un gigante que con una fiereza incomparable, chorreando sudor y espelurciada su rubia cabellera al viento, cortaba sin el menor descanso encinas, robles y espineros, mientras que yo imitándola en cuanto podía, podaba aquellos arbustos con el más grande de todos mis entusiasmos. Serían las tres de la tarde y no habíamos hecho aun el más pequeño descanso, cuando mi madre me dijo que buscase caracoles, que se criaban en abundancia por aquellos lugares, tal cosa hice mientras que ella prendía un buen fuego, y allí asamos los caracoles que al ser atacados por el calor, estiraban su cuerpo asándose perfectamente, y fue aquella asquerosa comida la que mitigó nuestra hambre. Y así un día, y quince, y veinte, hasta que logramos preparar sin desfallecer ni descansar, los tres carros de leña, acarreándolos a las costillas, en otras ocasiones poleándolos (haciéndoles rodar) por entre los zarzales y las peñas, hasta poder llegar con tan copiosa cantidad de leña, al estratégico lugar donde el panadero con su carro, pudiera cargar la leña. Estábamos embalagándola (apilándola) mi madre y yo muy ufanos y satisfechos, de la difícil victoria que habíamos en tan escaso tiempo conseguido, porque en duda pongo, que pocas gentes en todo el Universo en las circunstancias que nosotros nos encontrábamos hubieran podido lograrlo. Digo yo que en tal trabajo nos encontrábamos amontonando aquella leña, que todos los tochos (leños) medio descortezados por la cantidad de veces, que fue menester rodarlos por entre los cuetus (piedras) que poblaban aquel xerrapeíru (sierra) daban señales y no por los cortes de las herramientas, de haber sufrido lo indecible por encontrarse despeyexáus (despellejados) hasta casi el total emporricamiento (desnudez) de las arnas (cortezas) que los cubrían. Nuestras físicas humanidades se encontraban tan maltrechas después de tantos días de sobrehumano trabajo y de raquíticos y deplorables alimentos, que tal parecía que éramos cadabres (cadáveres) vivientes, sino supiesen cuantos nos conocían, que éramos dos invencibles barras del más puro acero. Yo descalzo de afechu (del todo) y mi madre con las alpargatas dándoles vueltas alrededor del tobillo, imposibilitadas del menor encatesu (remiendo) todas nuestras escasas vestiduras lucíanse tan acuchilladas, como si fatáus (muchos) puñales anárquicamente las hubieran rasgado. Y nuestras pieles por todos los lados se encontraban arraguñáes (arañadas), pinchadas, magulladas, en definitiva martirizadas por las piedras, por los espinos, por la infinidad de arbustos que en aquella sierra casi inaccesible para las mismas cabras, yo y mi madre como dos guerreros invencibles, cortamos aquellos tres carros de leña, que al decir de mi madre, servirían estupendísimamente bien para amagostar (asar) a la propia ley, y a los sinvergüenzas y deshumanizadores fascistones que la vieran fechu (hubieran hecho). Y en postura tan deplorable se empobrecían nuestros desventurados cuerpos, por todo lo contrario, nuestros espíritus se lucían sanos y fortalecidos, orgullosos y alegres, por haber conseguido aquel trabajoso y casi imposible triunfo. También solía decir mi madre dentro de una rabia y desilusión enfurecida, que si los «roxus» (rojos) hubiesen batallado con el mismo ardor, e indómito entusiasmo que nosotros habíamos puesto, todos los fascistones de Europa serían nada para vencerlos, ni en lo más mínimo. Vuelvo a repetir, que concluíamos mi madre y yo de empericotar (apilar) los cuatro leños que faltaban para dar por terminada aquella proeza, cuando la diosa fortuna nos vino a visitar en la forma de Falu el maderero, que más o menos, esto fue lo que nos hizo, y nos dijo: ¡Buenas tardes Lluza!, que así era como llamaban en asturiano a mi madre, ya que en castellano su gracia es Luzdivina. ¡Se ‘l tou home allevantara la motchera, ya te viera a tí ya ‘l tuo fiyiquín, nel estáu que vus deixó la llamazoúsa ley del venceor, paime amín, qu'el probetayu espavoríu per tan grandie inxusticia, oitra vez se morrería! (Si tu marido volviera al mundo y te viera a ti y a tu pequeño hijo, en la situación que os ha dejado la fangosa ley del vencedor, me parece a mí, que el pobre lleno de un enloquecedor pavor por tan grande injusticia, otra vez se volvería a morir). —Recuerdo yo muy bien, lo mismo que si en este momento de nuevo lo estuviese viviendo, lo que me ha hecho esta canallesca ley que ahora a ti te martiriza, cuando en los frentes de Teruel me cogieron prisionero. Me internaron en un campo de concentración, y me dieron más palos que días me quedan de vida, aunque muerra tan viétchu (muera tan viejo) como Marcelín el de Fresnedo, que le llevó Dios cuando pasaba de los ciento diez años. Como comida nos daban una lata redonda de sardinas o bonito, que los prisioneros le llamábamos «el reloj», ya que así era de pequeña. Cuando te salía podre, que sucedía la mayor parte de las veces, te pasabas el día haciendo vigilia. ¿Cuánto te va a dar el panadero por esta leña Lluza? ¡Hombre yo creo que son tres carros buenos, y como está pagándose a diez duros el carro, pues me dará treinta! ¿Algamate? (alcánzate para la multa). ¡Sí Falu, ye lu xustu! (Es lo justo). Rafael, que así se llamaba Falu, (uno de los hombres más honrados, trabajadores y enteros que yo he conocido), a la vez que del bolsillo interior de su chaqueta sacaba la cartera dijo: ¡Mera compañera, voy a venir con el camión de la compañía maderera y llevar toda esta montaña de leña a Trubia, yo te voy a entregar ahora por ella trescientas pesetas, si después vale más, ya te daré el resto, y si vale menos, considera ese dinero que te di, como regalo de un roxu decente ya honráu comu tú le yes miou neña! (Rojo decente y honrado como tú lo eres mujer). Al día siguiente que era feria semanal en la capital del concejo, pidiole mi madre prestado a una buena vecina amiga suya un paxiechacu (traje, vestido) y unas zapatillas, y así vestida de prestado la pobre, se trasladó bien de mañana a la Villa, pagó la multa a aquellos canallas que servían a una ley tan ultrajante, que a los vencidos y sus inocentes descendientes peor que a apestosos esclavos nos trataba. Luego, después, compró ella un paxietyín (un vestidito), unas zapatillas y unas madreñas, para mí, un buzo, que era la vestimenta que entre los pobres se estilaba, unas alpargatinas y unas fuertes madreñas, y después de mercar algunas cosas necesarias, vino para casa la mar de contenta y satisfecha. Y ahora yo me pregunto a muchos años de distancia, viviendo aquellos por mí vividos pisoteados y vengativos tiempos, ¿a qué asesinas, sucias y cobardosas manos, irían a parar, aquellos nuestros dineros, ganados con el sobrehumano esfuerzo y la más justa honradez, manchados por la sangre de nuestras heridas producidas en el agotador trabajo, y mojados por tantas gotas de sudor, como de estrellas debe de haber en el infinito cielo? ¿No se dan cuenta amigos lectores, que injusticias como ésta, o de otra índole aun mayores, deben de contarse al Mundo, pese a quien pese, para quienes las escuchan forjen en sus sentimientos, de que en toda guerra, y sobre todo las civiles, dejan tras de sí, primeramente el dolor más deshumanizante, después las venganzas más pervertidas, que darán vida con fuerza ilimitada, a la repugnante, sanguinaria y odiosa fiera, que todo ser humano, desde los primitivos tiempos de su nacencia, lleva celosamente escondida, en el apartamiento más oscuro y más brillante de su espíritu, donde se mueve gozoso el sentimiento humano, tras de saber que a su Prójimo bien le ha hecho, y se revuelve envilecido, encanallado y airado por el odio y las iras endiabladas, cuando también comprende que a sus semejantes, en el dolor y el sufrimiento los ha sumergido. Y fue precisamente a estos desatinados sentimientos, manejantes en aquellos tristes momentos, de las inhumanas leyes que regían los destinos de mi Patria, donde fueron a parar mis dineros, mis primeros dineros, ganados con más santidad y honradez, que pueda llevar dentro la propia Hostia Santa, que es tanto como decir, que sólo los mismos demonios faltos de toda conciencia y sin el más mínimo sentimiento de honestidad, podrían sin sentir asco de sus propias personas, apoderarse de los honrados y muy fatigosos trabajos, de una viuda de los roxus (izquierdistas, rojos, por el mismo estilo), y de un huérfano de los mismos. ¡¡Yo creo, que como aún no habían satisfecho sus ansias asesinas, con la muerte de mi padre y de tantos inocentes, precisaban en el momento que preciso les venía, afestinarse en postres con el esfuerzo y sufrimiento de sus deudos!! Durante algunos días viví yo jugueteando por la aldea, mi vida sin ninguna preocupación, muy contento porque iba vestido con aquel mono nuevo, más delgado que un papel de fumar, ya que se me había esgazáu (roto) por más de media docena de lugares, pero aún así, a mí me parecía que llevaba puesto, mejores galas que el mismo vencedor, que poco lucía sobre sus costillas, que se le pudiera denominar verdaderamente honrado. Mi madre mientras tanto, seguía incansablemente trabajando por las tierras de los vecinos, sin jamás cobrarles ni una peseta de sueldo, pues ella tan sólo quería, que al cambio de sus sudores le dieran una cestina de patatas, una fontadina de farina, ou de fabes lu mesmu foran prietes que blanques, d'arbeyinus ou d'oitra cebeira, dalgún terreñaín de lleiche, mazá, tarabazá, ‘n culiestrus ou cabantes de brañar. (Una fuente de harina, o de alubias de cualquier marca o color que fueran, de guisantes o de cualquier otro cereal que fuera, algún jarro de leche, desnatada, cuajada, o la que alumbran las vacas recién paridas, o de la que terminasen de ordeñar a una vaca de leche). Ella llegaba todos los atardeceres a nuestra casa, sudorosa y cansada, pero resplandeciente de alegría, porque en su mandil traía mi comida. Luego, después de que yo me hartaba, nos acostábamos los dos en aquel jergón de sacos, repleto de hojas de maíz y también de pulgas, y abrazada a mí, se quedaba muy pronto profundamente dormida. Yo que desde niño he dormido poco siempre, quizás para hacer bueno el dicho que de camino me invento, que considera al que poco duerme más infeliz, que quienes tienen la dicha de dormir prácticamente, dentro de estos mis desvelos, en la silenciosa tranquilidad de la noche de aquella amplia sala desmueblada, cuyas paredes y techo estaban del sarro que deja el humo, y plagadas de arroxetáus (enrubiecidos) goterones, que ponían al descubierto las primeras pinturas que habían tenido, fendíu (cortado) de continuo este silencio, por el risueño y sórdido murmullo que alumbraba el pequeño río que vertiginosamente se deslizaba a menos de diez metros de nuestra casa, y otras veces también era enruxeráu (alterado) aquel silencio, por los ladridos de los perros de la aldea, o por el cante siempre misterioso y apabullador que hacen las curuxas (buhos) en la noche, cuento yo en que estos desvelos, observaba el placenteroso dormir de mi madre, con su respirar acompasado, fuerte y sano, con todos sus acerosos músculos, con naturalidad relajados, talmente parecía mi madre del todo inofensiva, mas sin embargo, aquel perfecto y vigoroso cuerpo que acoplaba fuerzas en el descanso, de la misma natural manera que agigantadamente dormido descansaba, cuando despierto se hallaba, se transformaba en un invencible e incansable guerrero, condenada ya a luchar en l'engarradiétcha del trabayu (la pelea del trabajo), todos los momentos de su vida, por los mismos endemoniados vencedores, que primeramente le habían achuquináu ‘l sou home ya lus sous fíus. (Asesinado a su marido y a sus hijos). Y ahora que ya todo ha pasado, y lejos de olvidarlo se agiganta cada día más en mi mente, yo me pregunto, que si mi madre no hubiese sido así de luchadora, de brava, de valiente y honrada, qué seria de mí y de ella misma, acosados en todo momento por la ley insana del vencedor, y xunius (uncidos) también para siempre, en el desventuroso carro de la esclavitud bien vigilada, por el látigo y la pistola del triunfador.

    Primer Diccionario Enciclopédicu de la Llingua Asturiana > carraca

  • 17 quando

    when
    per quando? when?
    da quando? how long?
    quando vengo when I come
    ogni volta che whenever I come
    di quando in quando now and then, from time to time
    * * *
    quando avv.
    1 when: quando l'hai visto l'ultima volta?, when did you see him last?; quando verrai?, when will you come?; quand'è il concerto?, when is the concert?; quando partite?, when are you leaving?; quando la smetterai di preoccuparti per tutto?, when will you stop worrying about everything?; non so quando ci rivedremo, I don't know when we'll meet again; dimmi quando ti posso telefonare, tell me when I can phone you; ti hanno detto quando sarebbero arrivati?, did they tell you when they would arrive?; fammi sapere quando passerai da Milano, let me know when you're coming to Milan // a quando?, when?: a quando le nozze?, when will the wedding be? (o when is the wedding?); a quando la laurea?, when will you take your degree? // da quando?, since when?; ( da quanto tempo) how long?: ''é a letto ammalato'' ''Da quando?'', ''He's ill in bed'' ''Since when?''; da quando non lo vedi?, how long is it since you last saw him?; da quando abita qui?, how long has he been living here?; da quando lo conosci?, how long have you known him?; da quando ti sei messo a dare ordini qui?, since when have you been giving orders round here? // di quando è questo giornale?, what is the date of this newspaper?; sai di quando è quel palazzo?, do you know when that building dates from? // fino a quando?, how long? (o till when?): fino a quando starai qui?, how long (o till when) will you be here? // per quando?, (by) when?: per quand'è la riunione?, when is the meeting?; per quando dev'essere finito il lavoro?, when must the work be finished by? // quando mai?, when on earth, when ever: quando mai ti ho chiesto una cosa simile?, when on earth (o whenever) did I ask you such a thing?; quando mai siete venuti a trovarmi?, when did you ever come to see me?
    2 quando... quando, sometimes... sometimes: quando viaggio in treno, quando in aereo, sometimes I travel by train, sometimes by air; era sempre in ritardo, quando per un motivo, quando per un altro, he was always late, sometimes for one reason, sometimes for another // quando sì, quando no, ( non sempre) at times // di quando in quando, a quando a quando, from time to time (o now and then o occasionally).
    quando cong.
    1 (nel momento, nel tempo in cui) when: quando sono insieme non fanno che chiacchierare, when they are together all they do is gossip; quando arrivai, era già partito, when I arrived, he had already left; quand'era ragazzo giocava nella squadra di calcio della scuola, when he was a boy, he used to play in the school football team; quando egli ebbe finito di parlare, si levò un caloroso applauso, when he finished speaking, there was a warm round of applause; gliene parlerò quando lo vedrò, I'll mention it to him when I see him; verrò quando avrò finito di scrivere questa lettera, I'll come when I have finished writing this letter; quando sarà grande vuol fare il pilota, he wants to be a pilot when he grows up; tutto era rimasto come quando era bambino, everything was the same as when he was a child // da quando, since: da quando è in Italia, ha sempre lavorato con la stessa ditta, since he's been in Italy he has always worked for the same firm; da quando lo conosco, non ha avuto che guai, ever since I've known him, he's always been surrounded by trouble; molte cose sono accadute da quando sei partito, a great deal has happened since you left // di quando, of the time when: sono ricordi di quando eravamo in Inghilterra, they are reminders of the time when we were in England // per quando, by the time, (by) when: per quando ritorno dovete essere pronti, you must be ready by the time I get back // fino a quando, till (o until), ( fintantoché) as long as: rimase in Italia fino a quando ebbe terminato gli studi, he stayed in Italy till (o until) he had finished his studies; potete stare qui fino a quando vorrete, you can stay here as long as you like; non mi muoverò di qui fino a quando non avrò ottenuto una spiegazione, I'm not moving till I get an explanation // quand'ecco, when (suddenly): stavo per uscire, quand'ecco squillare il telefono, I was just about to go out when the phone suddenly rang // quando che sia, quando che fosse, any time // quando meno te l'aspetti, when you least expect it
    2 ( ogni volta che) whenever: venite quando volete, come whever you like; si rivolgono sempre a lui quando c'è qualche problema da risolvere, they always turn to him whenever there is a problem to solve; quando parli così, non sei obiettivo, whenever you talk like that you're not being objective; quando lo incontravo, aveva sempre qualcosa da raccontarmi, whenever I met him, he always had something to tell me
    3 ( mentre) while: quando studia, ascolta sempre musica, he always listens to music while he's studying; quando era ammalato, era la moglie ad occuparsi del negozio, while he was ill, his wife looked after the shop
    4 ( con valore causale) since, when: è sciocco insistere, quando sai benissimo di avere torto, you're silly to keep on, since (o when) you know very well you're wrong; quando ti dico che è così, mi devi credere, you must believe me when I say that's how it is
    5 (con valore condiz.) if: quand'è così..., if that is the case (o if that's so)...; quando dovessi vederlo, portagli i miei saluti, if you happen to see him, give him my regards; quando non ci fossero altri motivi, fallo per me, do it for my sake, if for nothing else; è inutile avere la casa in montagna, quando poi non ci si va mai, it's useless having a house in the mountains if you never go there; quando ne abbia fatto richiesta, il candidato può sostenere l'esame in altra sede, candidates may take the exam at a different venue if they apply to do so // quand'anche, even if, even though: quand'anche fosse così, non potrei farci nulla, even if that were the case, I couldn't do anything about it
    6 ( con valore avversativo) when: perché va a piedi quando potrebbe benissimo andare in macchina?, why does he walk when he could easily go by car?; non ha detto una parola, quando ( invece) avrebbe dovuto parlare, he said nothing, when he should actually have spoken; come può pretendere d'insegnare l'inglese, quando non lo sa nemmeno parlare?, how can he expect to teach English, when he can't even speak it?
    7 (con valore rel.) when: ricordo quel giorno quando ci siamo incontrati, I remember the day when we met.
    quando s.m. when: voleva sapere il come e il quando, he wanted to know the how and when (o the ins and outs).
    * * *
    ['kwando]
    1. avv

    quando arriverà? — when is he arriving?, when will he arrive?

    passerò a trovarti, ma non so quando — I'll come and see you, but I don't know when

    2. cong

    piange sempre quando parto — she always cries when I leave, she cries whenever I leave

    quand'anche tu volessi parlargli... — even if you wanted to speak to him...

    si lamenta lui quando ne avrei molto più diritto io — he's the one that's complaining, when in fact I've got much more reason to

    quando si dice la sfortuna...! — talk about bad luck...!

    * * *
    ['kwando] 1.
    1) when
    2) di quando in quando every now and then, every now and again, every so often, every once in a while
    2.
    1) when

    quando arrivò sul posto, capì — when he got there, he understood

    quando arriverà, gli darete la notizia — when he gets here, you can o will tell him the news

    da quando sa nuotare, adora l'acqua — he has loved water ever since he learned to swim

    fino a quando — till, until

    3) (ogni volta che) whenever
    5) (mentre) when
    6) (visto che) since
    7) (qualora) if, when

    quando ti capita di vederlo, salutalo da parte mia — if you happen to see him, say hello to him for me

    8) quand'anche even if
    9) quand'ecco when all of a sudden
    3.
    sostantivo maschile
    * * *
    quando
    /'kwando/
    I due principali usi di quando e del suo equivalente inglese when sono quelli di avverbio e congiunzione; come mostrano gli esempi nella voce, when congiunzione non può introdurre un verbo al futuro: quando arriverà, glielo diremo = when he arrives, we'll tell him; quando sarà arrivato, se ne accorgerà = when he has arrived, he'll realize it. - Si noti che da quando si dice since (non since when), e che quando si rende con whenever se il significato richiesto è tutte le volte che.
     1 when; quando arriva? when is he arriving? quand'è il concerto? when is the concert? non so quando arriverà I don't know when she'll get here; da quando abitate qui? how long have you been living here? da quando in qua rispondi a tua madre? since when do you answer your mother back? di quand'è la lettera? what is the date on the letter? a quando il lieto evento? when is the happy day o the baby due? fino a quando ti fermi a Oxford? how long are you staying in Oxford? per quando sarà pronto? when will it be ready?
     2 di quando in quando every now and then, every now and again, every so often, every once in a while
     1 when; quando arrivò sul posto, capì when he got there, he understood; quando arriverà, gli darete la notizia when he gets here, you can o will tell him the news; quando avrà finito when she's finished; mi chiami quando l'auto sarà pronta call me when the car is ready; quando meno me l'aspettavo è arrivato when I least expected it he arrived; ero appena uscito quando si mise a piovere I had just gone out when it started raining
     2 (preceduto da preposizione) da quando sa nuotare, adora l'acqua he has loved water ever since he learned to swim; da quando mi ricordo for as long as I can remember; parlaci di quando eri in Francia tell us about when you were in France; fino a quando till, until
     3 (ogni volta che) whenever; quando deve prendere l'aereo è sempre molto nervoso whenever he has to fly he gets nervous
     4 (in frasi esclamative) quando penso che mia figlia ha quasi dieci anni! to think that my daughter's almost ten!
     5 (mentre) when; l'ha lasciato solo quando invece avrebbe dovuto aiutarlo she let him down when she should have helped him
     6 (visto che) since; quando le cose stanno così non ho niente da aggiungere since it's like that I have nothing else to say
     7 (qualora) if, when; quando ti capita di vederlo, salutalo da parte mia if you happen to see him, say hello to him for me
     8 quand'anche even if
     9 quand'ecco when all of a sudden
    III sostantivo m.
      il come e il quando how and when.

    Dizionario Italiano-Inglese > quando

  • 18 ancora

    1. f anchor
    gettare l'ancora drop anchor
    2. adv still
    di nuovo again
    di più (some) more
    non ancora not yet
    ancora una volta once more, one more time
    dammene ancora un po' give me a bit more
    * * *
    ancóra2 avv.
    1 ( tuttora) still: abitate ancóra a Venezia?, do you still live in Venice?; ero ancóra molto giovane, I was still very young; ci stai pensando ancóra?, are you still thinking about it?; stavano ancóra parlando della partita, they were still talking about the match
    2 ( in frasi negative, nel significato di finora) yet: la cena non è ancóra pronta, dinner isn't ready yet; non l'ho ancóra visto, I haven't seen him yet
    3 ( di nuovo) again: dimmelo ancóra, tell me again; verrai ancóra?, will you come again?; spero che ci vedremo ancóra, I hope we'll meet again
    4 (davanti a compar.) even, still: è ancóra più difficile da capire, it's even (o still) harder to understand
    5 (in più, in aggiunta) more: ancóra un po', a little more; c'è ancóra vino?, is there any more wine?; vorrei ancóra del pane, I'd like some more bread; avete ancóra delle domande?, have you got any more questions?
    6 ( più a lungo) longer: restate ancóra ( un po'), stay a little longer.
    * * *
    I ['ankora] sf
    Naut, fig anchor

    gettare/levare l'ancora — to cast/weigh anchor

    II ['ankora]
    1. avv
    1) (tuttora) still
    2) (di nuovo) again
    3)

    è pronto? - no, non ancora — is it ready? - no, not yet

    4) (più) (some) more

    ancora per una settimana — for another week, for one week more

    ancora una volta — once more, once again

    2. cong
    (nei comparativi) even, still

    ancora di più/meno — even more/less

    ancora meglio/peggio — even o still better/worse

    * * *
    I ['ankora]
    sostantivo femminile anchor

    gettare l'ancorato drop o cast anchor

    levare l'ancora — to raise (the) anchor, to weigh anchor

    essere all'ancorato be o lie at anchor

    ancora di salvezzafig. sheet anchor

    ancora di speranzamar. sheet anchor

    II [an'kora]
    1) (sempre, tuttora) still

    ci sei ancora? (al telefono) are you still there?

    2) (finora, in frasi negative) yet

    non è ancora tornato — he still hasn't come back, he hasn't come back yet

    non è ancora pronto — it's not ready yet, it's not yet ready

    3) (di nuovo) again

    ancora una voltaonce again o more, one more time

    4) (di più, in aggiunta) more, another

    avete ancora domande?have you got o do you have any more questions?

    e altro ancora —...and lots more

    ancora peggio — even worse, worse still

    ancora più veloce — faster still, still faster

    ••
    Note:
    Quando significa tuttora, in frase affermativa e interrogativa ancora si traduce solitamente con still: è ancora a casa = he is still at home; abita ancora qui? = does she still live here? - In frase negativa, (non) ancora si traduce con yet, che può seguire immediatamente not oppure stare in fondo alla frase: non è ancora arrivato = he has not yet arrived / he hasn't arrived yet; l'uso di still in frase negativa dà all'espressione una sfumatura di stupore o esasperazione: non è ancora tornata a casa! = she still hasn't come home! - Quando ancora significa di nuovo, nuovamente, si traduce per lo più con again: venite ancora a trovarci! = come and see us again! - Per gli altri usi si veda la voce qui sotto
    * * *
    ancora1
    /'ankora/
    sostantivo f.
    anchor; gettare l'ancora to drop o cast anchor; levare l'ancora to raise (the) anchor, to weigh anchor; essere all'ancora to be o lie at anchor
    \
    ancora di salvezza fig. sheet anchor; ancora di speranza mar. sheet anchor; ancora di tonneggio kedge (anchor).
    ————————
    ancora2
    /an'kora/
    Quando significa tuttora, in frase affermativa e interrogativa ancora si traduce solitamente con still: è ancora a casa = he is still at home; abita ancora qui? = does she still live here? - In frase negativa, (non) ancora si traduce con yet, che può seguire immediatamente not oppure stare in fondo alla frase: non è ancora arrivato = he has not yet arrived / he hasn't arrived yet; l'uso di still in frase negativa dà all'espressione una sfumatura di stupore o esasperazione: non è ancora tornata a casa! = she still hasn't come home! - Quando ancora significa di nuovo, nuovamente, si traduce per lo più con again: venite ancora a trovarci! = come and see us again! - Per gli altri usi si veda la voce qui sotto.
     1 (sempre, tuttora) still; le interessa ancora? is she still interested? ancora oggi to this day; è ancora in città he's still in town; ci sei ancora? (al telefono) are you still there?
     2 (finora, in frasi negative) yet; non ancora not yet; non è ancora tornato he still hasn't come back, he hasn't come back yet; non è ancora pronto it's not ready yet, it's not yet ready
     3 (di nuovo) again; ancora una volta once again o more, one more time; ancora tu! you again! ha rifiutato ancora yet again he refused; provaci ancora! have another go! i prezzi sono ancora aumentati prices have gone up again
     4 (di più, in aggiunta) more, another; ancora qualche libro some more books; avete ancora domande? have you got o do you have any more questions? prendetene ancora un po'! (do) have some more! c'è altro ancora? is there anything else? ...e altro ancora...and lots more; si è fermato ancora due ore he stayed another two hours
     5 (davanti a comparativi) even, still; ancora peggio even worse, worse still; ancora più veloce faster still, still faster; ancora più automobili even more cars
     6 (in senso temporale) è ancora presto it's still early; non è ancora ora! it's not time yet! abbiamo ancora 5 minuti we have 5 minutes left; rimani ancora un po' stay a little (while) longer.

    Dizionario Italiano-Inglese > ancora

  • 19 per

    1. prep for
    mezzo by
    per qualche giorno for a few days
    per questa ragione for that reason
    per tutta la notte throughout the night
    per iscritto in writing
    per esempio for example
    dieci per cento ten per cent
    uno per uno one by one
    2. conj: per fare qualcosa (in order) to do something
    stare per be about to
    * * *
    per prep.
    1 ( moto per luogo) through; ( lungo) along; up, down; ( sopra) over; all over; ( senza direzione fissa) about, (a)round: il treno passa per Bologna, the train passes through Bologna; il corteo sfilerà per le vie principali della città, the procession will pass through (o will go along) the main streets of the city; si entra per la porta laterale, you enter through the side door; correre per i campi, to run through the fields; guardò per il buco della serratura, he looked through the keyhole; un pensiero le passò per la mente, a thought passed through her mind; siamo venuti per quel sentiero, we came along that path; scendere ( giù) per la collina, salire (su) per la collina, to go down the hill, to go up the hill; per mare e per terra, over land and sea; andare per il mondo, to go all over (o round) the world; hanno girato per tutta la città senza trovare un albergo, they went all over (o all round) the town without finding a hotel; aveva dolori per tutto il corpo, he had aches and pains all over his body (o he was aching all over) // una retta passante per un punto, a straight line passing through a point
    2 ( moto a luogo, destinazione) for; to: parto domani per Roma, I'm leaving for Rome tomorrow; a che ora parte il primo aereo per Parigi?, what time does the first plane for Paris take off?; dovete prendere l'autostrada per Como, you must take the motorway for Como; a causa dello sciopero, i traghetti per le isole sono sospesi, owing to the strike, ferry crossings to the islands are suspended // va per i quaranta, he's going on for forty
    3 ( stato in luogo) in, on; (all) over: per la strada, in the street; era seduto per terra, he was sitting on the ground; c'erano vari oggetti sparsi per il pavimento, there were various objects scattered (all) over the floor // avere la testa per aria, to have one's head in the clouds
    4 ( estensione, misura) for: l'autostrada si snoda per oltre 200 chilometri, the motorway runs for over 200 kilometres; proseguimmo in auto per un'altra decina di chilometri, we drove on for another ten miles or so; camminarono per miglia e miglia senza incontrare anima viva, they walked for miles and miles without meeting a soul
    5 ( durante) for (spesso in ingl. non si traduce); ( per un certo periodo di tempo o per una determinata occasione) for; ( per un intero periodo di tempo) (all) through; throughout; for; ( entro) by: per mezz'ora, (for) half an hour; ha vissuto per tre anni in America, he lived three years in America (o he lived in America for three years); abbiamo aspettato per ore, we waited (for) hours; il lavoro dev'essere pronto per domani, the work must be ready for (o by) tomorrow; darò una festa per il mio compleanno, I'm having a party for my birthday; la mostra è in programma per aprile, the exhibition is planned for April; ho un appuntamento col dentista per lunedì pomeriggio, I have a dental appointment for Monday afternoon; il libro uscirà per Natale, the book will come out (in time) for Christmas; sarò di ritorno per le cinque, I'll be back by five o'clock; i lavori di restauro saranno ultimati per la fine dell'anno, restoration work will be completed by the end of the year
    6 ( mezzo) by; through: per ferrovia, by rail; per posta, by post; per via aerea, by air mail; rispondere per lettera, per telegramma, to reply by letter, by telegram; spedire un pacco per corriere, to send a parcel by carrier; comunicare (con qlcu.) per telefono, to communicate (with s.o.) by phone; pagare per assegno, to pay by cheque; pagare per contanti, to pay cash; per vie legali, through legal channels; ottenere un posto per concorso, to get a job through a competitive examination // parlare per bocca d'altri, to speak through someone else's mouth // per mezzo di, by, by means of, through [cfr. mediante ]
    7 ( modo) by; in: procedere per gradi, to proceed by degrees; chiamare qlcu. per nome, to call s.o. by name; tenere qlcu. per (la) mano, to hold s.o. by the hand; desidero che sia messo per iscritto, I want it put in writing
    8 ( causa) for; owing to; because of; on account of; out of; through: fu premiato per il suo coraggio, he was rewarded for his courage; ha lasciato il lavoro per motivi di salute, he gave up his job owing to (o because of o on account of) ill health; il progetto fallì per mancanza di fondi, the scheme failed for lack of money; non si vedeva per la nebbia, you couldn't see a thing for the fog; era esausto per la fatica, he was exhausted through his efforts; tutto è successo per causa tua, it all happened because (o on account) of you; pagherà per quello che ha fatto, he will pay for what he has done; per dispetto, ambizione, orgoglio, out of spite, ambition, pride; per paura, through fear; ho taciuto, per paura di offenderlo, I kept quiet, for fear of offending him
    9 ( colpa) for: è stato arrestato per furto, he was arrested for theft; fu processato per omicidio, he was tried for murder
    10 ( fine o scopo) for: la lotta per la sopravvivenza, the struggle for survival; una cura per l'artrite, a cure for arthritis; raccogliere fondi per i senzatetto, to collect money for the homeless // cibo per cani, dog food // musica per pianoforte, piano music // libri per ragazzi, children's books // macchina per scrivere, typewriter // casa di riposo per anziani, old people's rest home // istituto per la ricerca sul cancro, cancer research institute ∙ Come si vede dagli esempi, in questo significato sono spesso usate forme aggettivali
    11 ( termine, vantaggio, interesse, inclinazione) for, to: fallo per me, do it for me; questi fiori sono per te, these flowers are for you; il fumo è nocivo per la salute, smoking is bad for one's health; l'ho fatto per il suo bene, I did it for his own good; mi dispiace per lui, I'm sorry for him; è un onore, un disonore per la sua famiglia, he's a credit to, a disgrace to his family; è stato come un padre per lui, he was like a father to him; morire per la patria, to die for one's country; votare per un candidato, to vote for a candidate; coltivare la passione per la musica, to cultivate a passion for music; nutrire simpatia per qlcu., to have a liking for s.o.; la partita è terminata 3 a 2 per la squadra di casa, the game ended 3 to 2 for the home team
    12 ( limitazione) for: il Brasile detiene il primato mondiale per la produzione di caffè, Brazil holds the world record for coffee production; è superiore a tutti per capacità tecniche e organizzative, he is unrivalled for technical and organizing ability; è molto maturo per la sua età, he's (very) mature for his age // per me, per quanto mi riguarda, as for me, as far as I'm concerned // se non fosse per me, te ecc., but for me, you etc. (o if it were not for me, you etc.)
    13 ( prezzo o stima) for: ha venduto la casa per un milione, he sold his house for one million euros; ho acquistato questo tavolo per pochissimo, per niente, I bought this table for next to nothing; sono stati rubati quadri per oltre due milioni, paintings worth (o for) over two million euros have been stolen // non lo farei per tutto l'oro del mondo, I wouldn't do it for all the world (o for all the tea in China)
    14 (con valore distr.) by; at; in; per: procedere per due, to go two by two; dividere per classi, to divide by class; disporre per file, to arrange in rows; uno, due per volta, one, two at a time; l'ingresso è di 20 euro per persona, entrance costs 20 euros per head // per cento, per cent: pagare un interesse del dieci per cento, to pay ten per cent interest // giorno per giorno, day by day
    15 (mat.) by: dividere 60 per 10, to divide 60 by 10; moltiplicare per tre, to multiply by three; 4 per 4 fa 16, 4 multiplied by (o times) 4 is 16
    16 (con funzione predicativa, con valore di come) as; for: avere qlcu. per amico, per socio, to have s.o. as a friend, as a partner // entrare per primo, to enter first // dare per scontato, to take for granted // tenere per certo, to take as a certainty // dare per morto, to give up for dead
    17 ( scambio, sostituzione) for: ti avevo preso per tuo fratello, I'd taken you for your brother; mi prendi per stupido?, do you take me for a fool?; ha parlato lui per tutti noi, he spoke for all of us; per il preside ha firmato il vicepreside, the deputy (head) signed for the head // capire una cosa per un'altra, to misunderstand // lasciare il certo per l'incerto, to take a leap in the dark.
    ◆ FRASEOLOGIA: per l'avvenire, for the future (o from now on); per amor di Dio, per amor mio, for God's (o for goodness') sake, for my sake; per l'appunto, just so (o precisely); per esempio, for example; per caso, by chance; per fortuna, luckily; per la maggior parte, for the most part (o mostly); per lo più, generally; per il momento, for the time being; per natura, by nature; per nulla!, not at all!; per tempo, ( presto) early, ( in tempo utile) in (good) time, on time; parola per parola, word for word; per parte di padre, on one's father's side; per amore o per forza, whether you like it or not (o willy nilly); per niente al mondo, for love or money; cambiare per il meglio, to change for the better.
    per cong.
    1 ( con valore finale) (in order) to (+ inf.); for (+ ger.): andai da lui per avere un consiglio, I went to him in order to get some advice (o I went to him for advice); sono venuto per parlarti, I've come to speak to you; ce n'è voluta per convincerlo!, it took a lot to convince him (o he took a lot of convincing); un prodotto usato per impermeabilizzare i tessuti, a product used for waterproofing material
    2 ( con valore causale) for (+ ger.): fummo rimproverati per essere arrivati in ritardo, we were told off for arriving late; fu multato per aver superato i limiti di velocità, he was fined for speeding
    3 (con valore consecutivo) to: è troppo bello per essere vero, it's too good to be true; sei abbastanza grande per capirlo da solo, you're old enough to understand it by yourself
    4 ( con valore concessivo) per poco che sia, è meglio di niente, little as it is, it's better than nothing; per costoso che fosse, era un gran bell'appartamento, although it was expensive, it was a beautiful flat; per essere un ragazzo di 10 anni è molto maturo, for a boy of 10 he's very mature
    5 stare per fare qlco., essere lì lì per fare qlco., ( con valore perifrastico) to be about to do sthg. (o to be on the point of doing sthg. o to be just going to do sthg.): stiamo per partire, we're about to leave (o we're just going to leave o we're on the point of leaving); ero lì lì per confessare tutto, I was on the point of confessing everything; lo spettacolo sta per cominciare, the show is about to begin.
    * * *
    [per] 1.

    viaggiare per il mondoto go around o travel the world

    per questo bisognerà fare — for that, you'll have to do

    6) (vantaggio, svantaggio)

    pregare per qcn. — to pray for sb.

    è per la ricerca sul cancroit's for o in aid of cancer research

    per quanto tempo...? — how long...?

    per ora o il momento for the moment, for the time being; dovrei arrivare per le sei — I should be there by six o'clock

    per postaby post o mail

    prendere qcs. per il manico — to pick sth. up by the handle

    10) (modo, maniera)

    per gradiby degrees o stages

    prendere qcn. per mano — to take sb. by the hand

    per quanto ricco sia — however rich he may be, rich though he may be

    per poco traffico che ci sia,... — even though there's not much traffic...

    per quanto ci provasse,... — try as he might, he

    per quanto (ne) sappia ioas o so far as I know

    per me ha torto — as far as I am concerned, he's wrong

    comprare qcs. per 5 euro — to buy sth. for 5 euros

    14) mat.

    moltiplicare, dividere per due — to multiply, divide by two

    per persona — per head, each

    due, tre per volta — two, three at a time

    dare qcs. per scontato — to take sth. for granted

    finire per fare qcs. — to end up doing sth.

    dare qcn. per morto — to give sb. up o write sb. off for dead

    avere qcn. per professore — to have sb. as a professor

    stavo per telefonartiI was going to o I was just about to phone you

    per l'amor di Dio!for God's o heaven's sake!

    2.

    per ricco che sia — however rich he may be, rich as he may be

    per andare va, ma è una vecchia carretta — I'm not saying it doesn't run, but it's an old banger

    * * *
    per
    /per/
     1 (moto per luogo) girare per le strade to wander through the streets; passare per la finestra to pass through the window; viaggiare per il mondo to go around o travel the world; ha tagliato per i campi he cut across the fields
     2 (destinazione) il treno per Roma the train for o to Rome; l'aereo per Milano the plane to Milan; partire per il Messico to leave for Mexico
     3 (stato in luogo) per terra on the ground o floor; per strada in the street
     4 (fine) uscire per comprare il giornale to go out to buy the newspaper; per questo bisognerà fare for that, you'll have to do
     5 (causa) per colpa tua because of you; picchiarsi per una donna to fight over a woman; rosso per la rabbia red with anger; gridare per il dolore to cry out in pain; lo fa per interesse he does it out of interest
     6 (vantaggio, svantaggio) per il tuo bene for your own good o sake; peggio per te! so much the worse for you! pregare per qcn. to pray for sb.; danni enormi per l'economia enormous damage to the economy; è per la ricerca sul cancro it's for o in aid of cancer research; 2 a 1 per l'Italia 2-1 for Italy
     7 (tempo continuato) per ore e ore for hours; per i primi due anni for the first two years; per un istante for a moment; per tutta la notte all night (long); per tutto il viaggio throughout the journey; per quanto tempo...? how long...?
     8 (tempo determinato) sarà pronto per lunedì it'll be ready for o by Monday; per ora o il momento for the moment, for the time being; dovrei arrivare per le sei I should be there by six o'clock
     9 (mezzo) per mare by sea; per telefono by phone; per posta by post o mail; prendere qcs. per il manico to pick sth. up by the handle
     10 (modo, maniera) per gradi by degrees o stages; prendere qcn. per mano to take sb. by the hand
     11 (concessione) per quanto ricco sia however rich he may be, rich though he may be; per poco traffico che ci sia,... even though there's not much traffic...; per quanto ci provasse,... try as he might, he...
     12 (per quanto riguarda) per quanto (ne) sappia io as o so far as I know; per quel che mi riguarda as far as I am concerned; per me ha torto as far as I am concerned, he's wrong
     13 (prezzo) comprare qcs. per 5 euro to buy sth. for 5 euros
     14 mat. moltiplicare, dividere per due to multiply, divide by two; 3 per 3 fa 9 3 by 3 is; per cento →  percento
     15 (distributivo) 1 litro di benzina per 15 chilometri 1 litre of petrol every 15 kilometres; per persona per head, each; giorno per giorno day by day; poco per volta little by little; due, tre per volta two, three at a time; dividere per età to divide according to age
     16 (predicativo) ho solo te per amico you're the only friend I've got; dare qcs. per scontato to take sth. for granted; finire per fare qcs. to end up doing sth.; dare qcn. per morto to give sb. up o write sb. off for dead; avere qcn. per professore to have sb. as a professor
     17 (per indicare il futuro prossimo) stavo per telefonarti I was going to o I was just about to phone you
     18 (in esclamazioni) per Giove! by Jove! per l'amor di Dio! for God's o heaven's sake!
     1 (consecutivo) è troppo bello per essere vero it's too good to be true; ha abbastanza soldi per comprare una macchina he has enough money to buy a car
     2 (finale) vado a Londra per imparare l'inglese I'm going to London to learn English; lo dico per non offenderti I say this in order not to offend you
     3 (causale) fu arrestato per avere rapinato la banca he was arrested for robbing the bank
     4 (concessiva) per ricco che sia however rich he may be, rich as he may be
     5 (limitativa) per andare va, ma è una vecchia carretta I'm not saying it doesn't run, but it's an old banger.
    \
    See also notes... (per.pdf)

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  • 20 xitanus

    Xitanus, gitanos. —Nus tempus d'endenantes cundu you era guaxe, toes les aldines de la miou Tierrina taben ameruxáes d'istes prexones ya d'oitres qu'achegaben fasta lus nuexus chugares catandu dalguna ruquera qu'enzular p'afogar la prietona fame que lus encibiétchaba, peru de toes les xentes qu'achegaben ya caúna col sou rexistru, lus únicus qu'arrapiegaben dalgu yeren lus intelixentes ya estutus xitanus, vou cuntabus nagora a la memoria d'istes ximples, xenciétches, intelixentes ya desprestixáes xentes isti tratu que cheldarun d'enría d'un veicín miou. TRADUCCIÓN.—En los tiempos pasados cuando yo era un niño, todas las aldeas de mi querida Tierrina, estaban, plagadas de estas gentes y de otras parecidas, que llegaban a nuestras aldeas buscando alguna cosa para comer, con el fin de ahogar la grande hambre que los encadenaba, pero de todas las personas que llegaban y cada una con su oficio bien entrenado y aprendido, los únicos que lograban engañar y sacar partido de sus trapisondas eran los inteligentes gitanos. Yo les voy a contar ahora a la memoria de estas simples y sencillas gentes, de estas buenas, inteligentes y despreciadas personas, un trato que hicieron con un vecino de mi aldea que siempre se las dio de listo, pensando que por mal que fuese el trato, él siempre saldría ganando, ya que su pollino valía muy poco. "PIN EL TOIPU" “JOSÉ EL TOPO” —Chegarun lus xitanus naquel díe del mes de coyer el pan mu cedu a la miou aldina, tou la nuétche la borrina apaxiétchara l'aldina con choramicus d'orfina, anxín yera que tous lus erus taben orbayainus, ya lus pancicales llucíen sous espigues enxemáes sous ariestes d'urpinas d'orfinadura, tal paicíen les espigues que yeren xoyes de finu goru, dientru de repuxáus cadexinus de plata de bona lley. —Llegaron los gitanos aquel día del mes de recoger el trigo (agosto), muy temprano a mi aldea, toda la noche la densa niebla había vestido a la aldea con finas lágrimas que casi invisiblemente de la niebla se desprendían, así era que todos sus campos estaban mojados, y los trigales lucían sus espigas llenas sus aristas de delicado rocío, tal parecían las espigas joyas del más fino oro, dentro de repujados de finas cadenas de buena plata de ley. —Taba la borrina pe la fondeirá de lus préus de la braña, ya tal paicíe qu'aquel díe 'l sol diba ser de figal, anxín yera qu'al nun puder coyer el pan per tar moyáu, cuaxi toes les xentes poucu teníen que faer, perque la yerbe tóa ya taba nel payar perque tou 'l branu fora un magosteiru, per isti cheldar toes les xentes andaben d'un lláu p'oitre chuquinandu 'l tempu, menus lus qu'andaben curiandu 'l ganáu. Anxina yera que la ñovedá de lus xitanus faía qu'el cutidianu tempu s'espiertare dálgu qu'agüéchar nuéu. —Aquechus xitanus chegaben prietus comu les rexes del xardu, amagostáus sous focicus pel sol de lus caminus, ya prietus tous sous pelleyus que chebaben al entestate, que cuaxi, cuaxi andaben en porriques, perque tantu lus homes comu les mucheres traíen sous paxiétchus tan eszarapáus, tan amamplenáus d'esgazaduras per tous lus lláus, que solu lus homes tapaben lus coyones, ya les muyeres la clica yal entamu, perque lus nenus andaben cuaxi d'afechu en porriques. Yera aquecha caterba de xitanus ente lus de sou clás lus mái probes, perque nin tan xiquiér teñíen nin pequenu nin ruín querru, tou contu teñíen chebábenlu d'enría de les costiétches ya del llombu de sous pótchinus. Istus xitanus per lu xeneral son mái pelligróuxus ya galaméan munchu máu depriexa d'un lláu p'oitre nun istanti, que lus que cheben querrus, pos ístus xamás faen les rapiegáes de lus oitres, perque tenen teixá dou catalus que son lus querrus dou s'ateíxan. TRADUCCIÓN.—Aquellos gitanos llegaban negros como las barras del xardu, tostados sus rostros por el sol de los caminos, así como también negros eran los cutis que lucían al aire, pues casi del todo andaban desnudos, porque tanto los hombres como las mujeres, traían sus vestidos tan rotos, tan sumamente despedazados por todas partes, que solo los hombres se tapaban los cojones y las mujeres el culo y las tetas porque los niños andaban casi completamente desnudos. —Era aquella tribu de gitanos entre los de su raza los más pobres, porque ni tan siquiera tenían ni ruino, ni pequeño carro, todo cuanto poseían lo llevaban encima de sus esqueléticas costillas y al lomo de sus pollinos. Esta clase de gitanos por regla general eran más peligrosos y se movían con más rapidez de un lado para otro en un instante, cosa que no podían hacer los que llevaban carros, pues estos jamás cometían los ladronizos de los primeros, porque tenían su casa dónde ir a buscarlos que eran los carros donde vivían. —Chuéu toes les xentes de l'aldina que teñíen dalgúna couxa que perder puxérunxe na guardia de llindiar aquechus xitanacus que lu mesmu arrapiegaben una pita, que cuallesquier oitra couxa menus les ferramientes de trabayu ya les madreñas, pos istes prexés yeren p'échus una ufenxa pa sous dinidáes. —Fexerun sou chariegu debaxu lus húrrus, xeitu dou s’ateixaben toes les xentes que comu échus espatuxaben pel mundiu adiantri, yeren ente mucheres guaxes ya homes un cabanáu de mái d'una ucena, ya sólu traíen tres pótchinus, dous burraxus grandies ya enteirus, tan flacus ya prietus comu taben échus, anxín comu 'na pótchinada pequena ya ruina, que viaxaba xin dalgun aparexu danría 'l sou cadarmeiru llombu, you nun sei xin yera perque nun tendríen mái albardes ou lú que fore, ou perque teñía un pótchinín de pouques xemanes tan famientu ya esguiláu comu tous échus. Nun istantín xebrárunse tóus nel trabayar de sous deleres, metandu qu'angunus quedaben debaxu 'l húrru dexaparexandu les couxes de lus pótchinus oitres tremáus pe l'aldina cataban buxíu pa les sous cestiquínes con mires d'escambiayes per comedera, ou leyíen la bona xuerte, ou chaben les cartes, ou miagaben llimosnes aqueches mucheres que chebaben un nenu d’entamu pal cuál pedigueñaben pel amore del Faidor dalgu de lleichi ou farina, ou pataques, ou fabes, pos ya nel atayu del pedigüeñáu tou lu que fora yera p'échus un antroxáu de festa. —Nel treminu de poucu tempu, tizarun el fuéu, puxeron el pote ya fixerun dalgu callentri, nun sei lu que yera, ya despós de ben gradiada l'aldina, rexúntarunse tóus enxemáus d'allegría, ya falandu na sou xerga metanes enzulaban el potaxín qu'encaldaran, tal paicía que yeren mái fellices que tou l'aldina xunta. TRADUCCIÓN.—Pronto todas las gentes de mi aldea que tenían alguna cosa que perder, se pusieron en guardia para cuidar aquellos gitanos, que lo mismo robaban una gallina, que cualquier otra cosa, pues todo les venía bien y érales necesario, todo menos las herramientas de trabajo y las almadreñas, pues estas preséas, eran para ellos una ofensa hacía sus dignidades muy particulares tan sólo con mirarlas. —Hicieron su campamento debajo de los hórreos de la aldea, lugar donde se aposentaban todas las gentes que como ellos caminaban por el mundo adelante, eran entre mujeres, niños y hombres, un tropel de gentes de más de una docena, y sólo traían tres pollinos, dos grandes burros sin capar, tan flacos y hambrientos como estaban sus dueños, así como una borrica pequeña y ruina, que viajaba sin ninguna clase de aparejos encima de su cadavérico lomo, bien fuese porque no tenían más albardas, o porque estaba criando un pollinín de pocas semanas tan hambriento y enflaquecido como todos los seres que componían aquella tribu. En pocos momentos se repartieron todos sus trabajos, mientras que unos se quedaban debajo del hórreo desaparejando las miserables cosas que traían encima de sus pollinos, otros se repartieron por la aldina, buscando la forma de acomodar a sus cestas en el cambio de comedera, otros leían la buena suerte, o echaban las cartas, o pedían limosnas aquellas mujeres que llevaban un niño de rollo entre sus brazos, para el cuál rogaban por el amor del Hacedor, un poco de leche, o harina, patatas, judías, pues ya caminantes en el atajo de pedir, todo cuanto les dieran para ellos era un regalo de fiesta. —Despos d’engayolar un migayu lus sous ventronacus, perque fartar nun viexen féchulu por lo rápido que habían comido, y lo poco que manejaran la cuchara, pués you agüétchabalus andar a xorbiatus de sous pletus ya cazuelus, per lu que cullumbréi que l'únicu que viexen faíu, fora callentar el estómagu conún tarreñaín de caldapius. Falu que coyerun lus sous pótchinus lus homes d'aquecha tribu 'n compaña de lus sous guaxes que comu you yeren zaragoletus, ya xebrárunxe p'escontres la veira 'l ríu, con mires de catar blimbes ya delgu de comedeira pa lus sous burraxus, perque per tous lus lláus taba la campíz amagostá d'afechu per cuaxa de les callores de tou 'l branu, peru lus pótchinus de lus xitanus manque sean viétchus rumien cuallesquier clás de fuéas ou yerbaxus, pos cundu la fame ye grandie, lu mesmu les prexones que lus anemales nun le ponen mal focicu a dalguna clás de comedera, pos tou ye comu 'n mamxar, ya les boques mái escosáes de caniles, rabilen ya ruquen cuaxi lu mesmu que xin lluciéranxe ben ferramientáes, perque la fame fae millagrus en tous lus xentíus menus nel del estómadu. —Un de lus tres pótchinus el de mexor presencia, chevaba una cabezá cuaxi nuéa, con grandies ureyeres, ya mosqueires de collorinus que remataben nunes moutes comu la de les monteires de lus xoldiáus, xegun el miou preciar, aquecha cabezá teñía mái vallor que tous lus paxiétchus, fatus, cacíus e aparexus que chelaba la tribu enteira. TRADUCCIÓN.—Después de entretener o engañar un poco el estómago, porque hartar no debieron de haberlo hecho, por lo rápido que habían comido y lo poco que manejaron la cuchara, pues yo los observaba beber con ansiosos tragos por sus platos o escudillas, por lo que saque en consecuencia, que lo único que habían hecho no había sido otra cosa, que el calentarse un poco el estómago, con aquel puchero de pobres caldos. Dígoles que nada más dejar los platos, cogieron los hombres de aquella tribu sus burros, y acompañados por los niños mayorcitos, se marcharon para la orilla del pequeño río, con miras de buscar mimbres y alguna hierba para darles de comer a sus animales, ya que por todos los lados se encontraba el campo quemado del todo por la causa del excesivo calor de aquel verano, pero los pollinos de los gitanos, así como todas las gentes y animales del mundo, bien sean viejos o nuevos, comen o rumian cualquier clase de alimentación cuando son atacados por el grande hambre, pues con esta esquelética señora por dueña, tanto las personas, como los animales, no le ponen mal hocico a ninguna clase de comida, ya que la más despreciable es un rico manjar, y hasta las bocas limpias de todo diente, trituran y rumian casi lo mismo, que las que tienen un buen dentamen, porque el hambre, hace milagros en todos los sentidos menos en el del estómago. —Uno de los tres pollinos, el de mejor presencia, llevaba puesta una cabezada casi nueva, con grandes orejeras claveteadas, y mosquiteras de diferentes colores, que terminaban en unas borlas, como las que llevan los gorros de los soldados. Según mi apreciar, aquella cabezada tenía ella solo más valor, que todos los vestidos, y demás ropas, cacharros y aparejos de toda la tribu. —Cundu lus xitanus chegarun al regueiru dexarun a la pótchina yal oitre buche xueltus, paque guarecieren per achindi 'l sou antoxu lu pocu que viexe que pastiar, metantu qu'al pótchin de la lluxóusa cabezá, l'arretrigarun al tueru d'una figaleta, chandói achindi delgu de xegáu qu' apradiaben per les xinuexes veires del regueiru, que xegaretaben conún foicinacu, tal paicíe qu’aquel pótchin tratábenlu mexor que a lus oitres, per unguna razón que you entavía nun comprendíe, achindi rucandu arretrigáu a la figalina taba enzulandu lu quei chaben, metandu qu'al lláu d'él taba un xitanu pulgandu ou escortexandu blimbes, cundu paxóu per el cháu d'él Pín el Xordapu, que comencipióu a nomaxe 'l Toipu disdi aquel mesmu díe. Pín qu'entendía d'animales per viexe criáu xempre 'l lláu d'échus, cundu agüétchou aquel burru de bona prexencia, que rucaba comu 'n condenáu aquechus yerbatus, ya qu'auxaba les mosques a patáes, rabotazus ya fasta con xeniu col sou focicu fasta 'l xeitu qu'el ramal lu dexare, comencipióu a falar col xitanu de couxes que you nun ureaba perque taba dalgu lonxe d'échus xugaretiandu a lus mious deleres, metantu uxerba a lus xitanus lu que faíen per la veira del regueiru, anxín me lu dixu que fixera miou tíu, que teñía un patacal per aquechus chugares, ya nun fora que lus xitanus fozaran en él ya l'arrapiegaren un manegáu de pataques. —Nagua you les uyía de lu que falaben, peru xin qu’agüétchaba a Pín afilbanar per tous lus lláus al buche con güeyáes ximulóuxes, pa despós cundu s'allevantóu 'l xitanu dexandu 'l sou trabayu, comincipiar a rexistrar el burru anxín per altu. Despós vilu colar pala sou teixá, paiciéndume qu'espatuxaba mái llixeiru qu'oitres veices, al ratiquín vilu golguer col sou burriquín del ramal, qu’al colocalu ‘l lláu del d'el xitanu paicía un nanu pelu pequenu ya rancuátchu que yera, fói entoncienes cundu m'ariméi 'l lláu d'échus cundu envidayéi que diben cheldar un tratu. TRADUCCIÓN.—Cuando los gitanos llegaron al riachuelo, dejaron a su borrica y al otro pollino sueltos, para que pacieran por allí a su antojo, lo poco que había que patiar mientras que el pollino de la lujosa cabezada le amarrarón al tronco de una pequeña higuera, y allí le dieron algo de pación que recogían en las cuestas y difíciles orillas del torrente, que segaban con una pequeña hoz, tal parecía que aquel pollino le cuidaban mejor que a los otros, por alguna secreta razón que yo no comprendía. Allí rumiando atado a la higuera estaba comiendo lo que le daban, mientras que al lado de él, sentado se encontraba un gitano que parsimoniosamente pelaba las mimbres para hacer cestas, cuando acertó casual o intencionadamente a pasar por el lugar Pín el Sordo, que se comenzaría a llamarlo Pín el Topo en toda la aldea y sus contornos desde aquel mismo día. —Pín que entendía mucho de animales por haberse criado toda su vida entre ellos cuando vio aquel burro de tan buena presencia, que comía como un desespera aquellos hierbajos, que cualquiera de sus animales despreciaría, y que par espantaba las moscas dando recios y enérgicos coces, fuertes rabotazos y hasta con su hocico con recio regio las espantaba hasta el lugar que se lo permitía el ramal que le ataba. Se detuvo y empezó a dialogar con el gitano de cosas que yo no podía oír por encontrarme demasiado alejado de ellos jugando a mi manera, mientras que en todo momento observaba a los gitanos todos sus movimientos, pues así me lo había ordenado un tío mío, que tenía una huerta sembrada de patatas por aquellos lugares, y no fuera a ser que estos condenados entrasen en ella, y le robasen un grande cesto de patatas. —Nada de cuanto hablaban les escuchaba, pero si que observe a Pín con miradas simulosas propiar al pollino por todas partes, para después, cuando se levanto el gitano y dejó su trabajo, comenzar a registrar al jumento así por encima sin mucho detenimiento, para después marcharse camino de su casa, pareciéndome a mí que caminaba con más ligeraza que otras veces. Al poco tiempo le vi retornar con su borriquito del ramal, que al colocarle al lado del de el gitano, tal parecía un enano por lo pequeño y ruin que era, mi curiosidad me hizo acercarme al lado de ellos, y así pude comprobar como querían hacer un trato. —Cundu 'l xitanu agüeyóu 'l buchacu de Pín xonriyendu le dixu, que comu teñía la poucu vergüenxa del querer cambear el sou buchecín, que yera de fierru ferrunóuxu, per el sou pótchin, que yera de goru macizu, pos xin él tal couxa fixera xemeyaría 'l toipu que cambeóu lus güétchus pel ráu. Pín comencipióu falale que xin dalgu tenía qu'apurriye que fora xustu ya non una rapiegada, pos achindi taba pa tóu lu que fore honréu. El xitanu entóus comencipióu a rexistrar el burrín de Pín conél esprapayu de maestru nel ufixu, palpulu ya miróulu tóu em menus tempu del cantíu del pitu, ya despós díxole, qu'l sou borriquín yera mu vieyu, quei faltaben dalgunus molares ya que teñía l'amolaxura de la foría, total que xin quería camiar el buche teñía qu'apurriye déz pexus enría, ya dous pela cabeza, pos al sou pótchin nunye xeivía perque coyíu tou él dientru d'écha. Pín el Xordapu coyu 'l xitanu pela pallabra ya díxole, que taba d'acurdu 'n apurriye lus déz pexus pel pótchín ya dái 'l suyu enría, peru pelu que nun entraba yera nel mercái la cabezá, pos xospechaba qu'aquel lluxóuxu arñés yera 'l frutu d'una rapiegá, ya nun fora la couxa qu'un díe topara 'l sou amu per dalgún merquéu ou feria ya viexese nun vergüenzóuxu compromixu. —Fáigarne 'l favor paixanu, contestoye 'l xitanu nel char del noxáu. ¿Vusté nun ten güeyus nixe focicu de magüetu que ten, p'uxervar qu’ista carbezá ta fecha a la medía del niou pótchin? —Pos xin penxa qu'el cabezal foi afoinái, penxe tamén qu'el burru foi rapiegáu, ya cole con priexa a denunciábe, agora manque m’apurra venti pexus pel pótchin, ya cuatru pel cabezáu nun encaldaríe con úste tratu dalgún perque ye un paixanu escosu de mótchera, anxín que xébrese del miou lláu xinún quer que nus engarradiemus per nomame lladrón. TRADUCCIÓN.—Cuando el gitano vio el enclenque burro de Pín sonriéndose despreciativamente le dijo: —Que como tenía la poca vergüenza de querer cambiarme aquel despreciable borrico que era de hierro herrumbroso, por el su preciado pollino que era de oro macizo. Pues si tal cosa yo hiciese, decía sonriente el gitano, me parecía al topo, que cambió los ojos por el rabo. Pín con suaves palabras le dijo, que si algo de dinero le tenía que dar encima, que fuera una cosa justa y no una ladronada, que allí estaba él para lo que fuese honrado. —El gitano entonces comenzó a buscar los defectos del borrico de Pín, con la experiencia de ser consumado maestro en tal oficio, lo tocó y lo miró entero en menos tiempo del canto del gallo, y después muy seriamente le dijo, que su borrico era muy viejo, que le faltaban algunas muelas, y que tenía el mal de tener muy a menudo diarreas, total que si quería cambiar su pollinín por el suyo, le tenía que dar diez duros encima y dos más por la cabezada, ya que a su pollino no le servía, pues cogía todo él dentro de ella. —Pín el Sordo asiendo al gitano por su palabra le dijo, que estaba de acuerdo en darle los diez pesos por su pollino y el suyo encina, pero por lo que no pasaba era por el comprarle la cabezada, pues sospechaba que aquel lujoso arnés, era sin duda el fruto de un robo, y no fuera la cosa que un día se encontrara con su dueño en algún mercado o feria, y él se viese metido en un vergonzoso compromiso. —Hágame el favor paisano, le contestó el gitano muy enojado y sulfurado, ¿usted no tiene ojos en su cara de bestia para observar que esta cabezada esta hecha a la medida de mi pollino? —Y si piensa que este cabezal ha sido robado, piense también que el pollino venía con él, y ya sabiendo o suponiendo que entrambas cosas son de la procedencia de la rapiña, puede usted marchar con prisa a denunciarme, porque yo ya no le cambiar mi pollino por su enclenque borriquillo, ni aunque me dé veinte duros encima y cuatro más por la cabezada. Así pues, hágame el favor de marcharse de mi lado sino quiere que nos enzarcemos a leñazos, por la causa de usted haberme ofendido llamándome ladrón. —Nun quixe ufendélu bon xitanu, peru you xempre disdi guaxín ureéi falar a les xentes viétchas, qu'el ufixu de lus xitanus ye 'l faer curioxas cestiquines de blimbles, arrapiegar lu que fore ya enduétbichar fadiernus tratus entivocandu lus iñoxentes paixanus. Anxina ye qu'arretiru lu de chamalu lladrón, ya choquémonus la mán dandu per fechu isti tratu. —El xitanu con punxes plasmáes nel sou esquelléticu focicu de tar entabía m' enoxáu díxole a Pín el Xordapu nel encaldar que l'apurría la sou mán, xamás niegu you la miou mán al que pide perdón, peru llancáu t'entavía nel miou vidayu l’ufenxa que me fexu, per ísfu, ya metantu nun se xebre d'afechu de la miou mótcheira, dexemus el tratu namái que nu faláu, ya xin disdi aquindi a la nuetche se me xebra la noxaura, entóus a lu mexor damus el tratu per zarráu. —Cundu chegóu 'l atapecer del díe, Pín el Xordapu fexu prexencia 'l lláu lus hurrus, per ver xin al xitanu le viexe xapaicíu 'l enoxu, ya puénxuse mu cuntentu cundu l'agüétchou reyixe m'allegre ya fellíz al lláu de les sous xentes, per ístu achegóuxe 'l lláu d'él ya nel cheldar quei poñía la mán denría 'l sou homo le dixu. —Bonu xitanu, quéi faemus el tratu ciarrándulu d'afechu ou entavía s'enllamuerga nel char del tar enoxáu. —El xitanu dichadicheiru le dixu que ya taba tan contentu comu endenantes de velu coñocíu, ya qu'el tratu taba piétchau xin d'enría de l'acordiáu l'apurría un cestu pataques pa faer la cena ya un xarricáu de lleiche pa lus nenus pequenus. —Ya fecha la nuetche d’afechu, zarrarun el tratu entrambos cuntentus ya mu xatisfechus, ya Pín el Toipu, colóu pa la sou teixá chevandu 'l burru 'l xitanu pel ramal del lluxosu cabezal, falandoi sou vidayu que viexe fechu un xegún sou paicer,un fadiernu tratu ya qu’el sou pótchinacu naide n'aldea lu quixés manque fora de regalu. Anxín qu‘achegóu a la sou corte col nuéu pótchin, arretrigolu na pexebleira, chói un bon brazáu de yerbe, ya metandu qu'el burru esgalazáu de fame l’ensulaba con priexa, palpolu ya reparóulu per tous sous lláus menus pe lus güétchus, ya quedóu prendáu d'el en tous lus xentíus. TRADUCCIÓN.—No he querido ofenderle buen gitano, pero yo desde niño siempre he oído decir a las gentes viejas, que el oficio de los gitanos, es el hacer hermosas y serviciales cestas de mimbres, robar todo cuanto tuvieran a mano, y enredar buenos tratos equivocando a los inocentes paisanos. Así que retiro lo de llamarle ladrón, y démosnos la mano dando por hecho este trato. —El gitano con señales plasmadas en su esquelético rostro de encontrarse muy enojado, le dijo a Pín el Sordo en el hacer que le daba su mano. —Jamás niego yo mi mano a quién me pide perdón, pero clavado tengo todavía en mi pensamiento la ofensa que me ha hecho al llamarme ladrón, por esta razón, mientras que no se marche del todo de mi pensamiento tan dañino sentimiento, dejemos el trato nada más que en lo hablado, y si desde aquí a la anochecer puedo olvidar la enfadadura que me ha hecho, entonces a lo mejor daremos el trato por hecho. —Cuando llegó el oscurecer del día, Pín el Sordo hizo acto de presencia al lado de los hórreos, para saber si al gitano ya le hubiese desaparecido el enfado, y se puso muy contento cuando le vió, reírse muy alegre y feliz al lado de sus gentes, por esta razón se acercó a su lado, y en el hacer que le ponía halagosamente una mano encima de su hombro le dijo: —Bueno gitano, qué hacemos el trato dándolo por terminado del todo, o todavía se remoja usted en el lar de estar enojado. —El gitano parlanchín y alegre le dijo, que ya se encontraba tan contento como antes de haberle conocido a él, y que el trato estaba cerrado y bien hecho, si encima de lo acordado, le daba un cesto de patatas para hacer la cena, y una jarra de leche para los niños pequeños. —Ya hecha la noche por completo, dieron el trato por hecho, entrambos muy contentos y satisfechos, Pín el Toipu marchó para su casa llevando al burro del gitano asido por el ramal de la lujosa cabezada, diciéndole en silencio su cerebro, que había hecho según su parecer un buen negocio, ya que su pollino nadie en su aldea lo quería aunque lo regalase. Así que llegando a su cuadra con su nuevo burro le ató a la pesebrera, le dio un buen pienso de hierba y mientras que el pollino con grande apetito la engullía con prisa, le palpó y reparó cuidadosamente por todas sus partes menos por los ojos, y quedó prendado de él en todos los sentidos. —Cundu lus malvixus xilbiaban lus albiares d'oitre díe, lus xitanus se xebraben muy cuntentus de miou aldina, ye d'antigu 'l xaber, que cundu lus xitanus encaldan anguna rapiegá, xempre colen endenantes de que les xentes del llugar espierten p'escubriya, foi anxina naquel xuceder, pos cundu Pín El Toípu fói atreínar el ganáu a la sou corte, lu primeiru que fexu fói chái una güétcha 'l sou nuéu pótchín ya viólu corriudu ya uriscu, paiciénduye que despós la fartura de bona yerbe que viexe enzuleu, fasta llucía mexor pelaxe, metandu que faluchandu conxigu mesmu se decía, que namái que auxare la fame del sou curpu, aquel pótchin diba ser mu nomáu n'aldina. —Despós d'abrañar les dous bétchaes que tenía na corte, perqu'el oitre ganáu taba nel puertu, dióule la sou mucher d'almorzar un bon escudítchau de papes con lleichi cabantes d'afoxinar, ya despós de fartu, díxole a la sou muyer que diba dír al puertu pa ver comu s'atopaba 'l ganáu, ya que diba dire axinetáu nel burru p'uxervar la xixa a maneires que tenía. —Anxina foi, que xacóu 'l pótchin de la corte pel ramal fasta la correlá de sou teixu, dou la sou mucher l'aguardaba p'agüétchalu per primeira véiz, ya namái quei llancóu lus sous güeyus denriba, díxole cuntenta 'l sou home que viexe fechu xegún picíe un fadiernu tratu, Pín el Toípu metandu l'aparexaba con l'albardaxa del oitre pótchin que de pequena quei venía cuaxi nui algemía, falabai a la sou muyer ameruxáu d'allegría ya envelexáu per dáxeyes de llistu ante la sou muyer, qu'urear nun uriaba munchu per cuaxes de la sou xordeira, peru qu'al güeyu yal vidayu poucus l'algamían, la sou muyer que yera una andoyona reyía fellíz escontres el sou llistu home, ya entrambus per aquel pótchin per un momentu forun fellices, fasta que Pín escarranquetánduxe denría 'l pótchin, díxole a la sou muche que lluéu taría de regolguía, nel encaldar que con el sou cayaducu l'apuría 'l burru cuaxi cuaxi falagoxamente paque comencipiara a caminar, e anxina lu fexu 'l pótchin ya nun paróu fasta qu'el sou focicu nun truñóu escontres la porta de la teixá del Puchegu, que taba cual char tamén almorzandu les papes, ya dexandu la tareña xaliú a la caleya dou vióu a Pín el Toipu andar al remolín d’un lláu p’oitre de la caleya xin faer brexu d'aquel condenáu pótchin per munchu que col cayáu ya les brindes l’acaidonaba el xétchu d'andar drechu couxa qu'el probe pótchin nun podíe faer per que taba ciegu comu ‘n toípu, ya nun l’escubrióu Pín xinún el Puchegu, que yera un útre p’urear, agüétchar ya envidayar cuallesquier bétcha ou escosá couxa. Ya comu bon puchegu falói a Pín dista maneira: TRADUCCIÓN.—Cuando los tordos malvises silbaban a los despertares del alba alegres y felices del naciente día, los gitanos muy contentos y dichosos se marchaban de mi querida aldea. Es de antiguo ya sabido entre las hidalgas y nobles gentes de estos maravillosos y embrujantes valles y montañas, que cuando los gitanos hacen algún ladronizo, engaño o timo, siempre se ausentan antes que las personas del lugar se despierten para descubrirlos, y así fue en aquel acontecer, pues cuando Pín el Topo ya con el día alumbrado del todo, fue a su cuadra a ordeñar y cebar al ganado, lo primero que hizo fue mirar con marcado profundo a su nuevo pollino, y lo vió recio, con genio espantadizo, pareciéndole a él, que después de la buena hartura de la excelente hierba que había comido, parecía más lucido su pelaje, y hablando consigo mismo muy contento se decía, que nada más que se alejara el hambre de su cuerpo, aquel pollino iba a ser muy renombrado en la aldea. —Después de arreglar las dos vacas paridas que tenía en el establo, porque el otro ganado que tenía por aquella época estaba en el puerto pastiando, le dió su mujer el desayuno, que consistía en una escudilla grande de harina cocida, comida a la par de la espumosa leche recién ordeñada, y después que se hartó, le dijo a su mujer, que iba a ir hasta el puerto, para ver como se encontraba el ganado, y que iba montado sobre el burro, para observar su fuerza y las otras maneras que pudiera tener. Así fue que sacó al pollino de la cuadra cogido de su ramal hasta la corralada de su casa, donde su mujer le esperaba para mirar por primera vez aquel burro tan aponderado de su marido, y nada más que sus ojos le repararon con interesado deseo, díjole muy contenta a su marido, que hubiese hecho según su apreciación un buen trato. —Pín el Toípu mientas le aparejaba con la albarda del otro pollino que de pequeña que era casi no le valía, le decía a su mujer lleno de alegría y endiosado por sentirse agudo y listo ante los ojos de su mujer. —Yo oír no oigo mucho por causa de la sordera, pero a vista e inteligencia muy pocos me alcanzan. La su mujer que era una inocentona, se reía muy feliz hacía su listo marido, y entrambos por aquel pollino en aquellos momentos se sentían felices, y a la par que Pín montaba en su pollino a su mujer le hacía, que muy pronto estaría de vuelta, y seguido le daba al burro con el callado casi, casi como halagándole para que se pusiese en camino, y así lo hizo el buen pollino, no deteniéndose en su camino, hasta que su hocico no tropezó contra la puerta de la casa del satírico, que en aquel suceder también estaba desayunando las papes, y ante tal golpetazo, dejó su escudilla saliendo con rapidez a la calleja, donde vio a Pín el Topo dando vueltas a caballo de su burro de un lado para otro de la calle, sin poder conducir aquel condenado asno, por mucho que lo intentaba con el callado y las bridas para ensenderarlo en el surco del caminar enderechura, cosa que el desgraciado pollino no podía hacer, porque se encontraba tan ciego como el topo, y no descubrió este mal Pín, sino que fue su vecino Satírico, que era un verdadero águila en el oír, ver y pensar en cualquier rica o pobre cosa, y como buen satírico que era le habló a Pín de esta manera: —Disdi güéi Pín el Xordapu tou l'aldina chamarate Pín el Toípu, perque hay que tar de cegaretu comu isti llabrador xin llabiegu, pa nun ver disdi prinxipíu qu'isti pótchin nun vei goteira per dagún de lus dous güetchus. Pín baxóuxe del pótchin xin gurniar pallabra, falagóu 'l burru comu dandói nel entender que nun taba noxáu escontres d'él, coyólu pel ramal ya golguióu arretrigalu na sou corte, dexaparexólu ya chandoi un bon brazáu de yexbe axentóuxe nel pexeble xuntu dél, comencipiandu falaye d'ista maneira: —Nun cuntes miou pótchin que tóu noxaón escontres tigu per que tás cegaretu you sei que yes un bón pótchin, grandie, forte, sanu ya enteiru comu se foxes de parada, per ístu d'aquindi nadiantri you seréi lus tous güetchus, ya tóu farás lus mious trabayus, you te chevaréi ben acaidonáu pel ronzal, ya farás lus mesmus trabayus que cualesquier pótchin de l'aldina, l'únicu que nun podréi será 'l axinetame d'enría tigu, peru de tous lus demás llabores nun me dexarás d'encaldar dalgún, anxine ye, que cuaxi tou contentu de ver fechu 'l tratu con lus condenáus xitanus, quei conisti tratu que fexe conechus, per rexultar tóu cegeretu d'afechu, llimpiarúnme disdi güéi 'l nome de Pín el Xordapu, 'l chamane 'l Puchegu Pín el Toípu, que ye lu mesmu que xin me bautizar el cura. —Y'Anxina foi comu xucedióu, pos aquel xigante de pótchin cegaretu, acaidonáu per el bon envidátchar de Pín el Toípu, yera queríu, aponderáu ya respetáu nun solu na miou aldina, senún entoes les oitres de l'arredonda, ya yera tan renomáu aquel pótchin, perque faía couxes qu'enxemás fixérales dalgún burru que tuviexe lus güeyus con bona vista. El pótchín conel bon pexeble refachénduxe nel cheldar qu'auxaba la fame del sou curpu, ya comu yera xoven dientru lu que cueye, féxose un pótchinon cuaxi paicíu a lus de les paráes de xementales. —Un díe 'l sou veicín díxole a Pín qu'andaba la sou pótchuca callentri, ya quei xin le doxaba que la cabriere 'l sou pótchin, Pín que nun algamíe a faer les puches tamén encalducades comu les cheldaba el sou veicín el Puchegu que foi capaz d'escambiaye 'l nome, xin qu'el sou vidayu cuaxi xempre con intelixencia l'allambraba, per ístu arrespondióule axindi: —Comu 'l miou cegaretu pótchin ye xemental de postineira parada, ya nun solu per sou prexencia, xinún perque paez que ten fasta pequenina alma, xin quiés que cubra la tou pótchina tenes qu'apurrime un pexu, ya isu atinde que yes veicín de la porta la teixada, peru a toes les oitres xentes que queran pedime lu mesmu que tou, cobrareyes dous pexetes mái, perque tener na corte descendencía del miou pótchin, ye teñer la meyor xoya de la pótchineria. Conistu queru falate queríu veicín de la porta la teixá, que con la rebaxa que te faigu ben me pués faer una bona propaganda. TRADUCCIÓN.—Desde el día de hoy Pín el Sordo, toda la aldea te llamará Pín el Topo, porque hay que estar tan ciego como este labrante sin arado, para no ver desde principio que este pollino no veía ni gota por ninguno de entrambos ojos. Pín se apeo de su asno sin pronunciar palabra, a la vez que halagaba al pollino, dándole a entender que no estaba enojado con él y asiéndole por el ramal le volvió a atar dentro de su establo, lo desaparejo y le dio un buen brazado de hierba, y sentándose en el pesebre junto a él, comenzó a hablarle de la siguiente forma: —No pienses mi pollino que estoy enojado contigo, porque te encuentras completamente ciego, yo se muy bien que eres un buen pollino, grande, fuerte, sano y entero, como si fueses de la parada de los sementales, por esto, de ahora en adelante, yo seré tus propios ojos y tu harás los mis trabajos, yo te llevaré bien conducido por el ramal y harás los mismos quehaceres de los demás pollinos de la aldea, lo único que no podré será el ajinetarme encima de tu lomo, pero de todos los demás labores, se que no dejarás de hacer ninguno y hasta puede que los realices mejor que el más avispado de tus hermanos de burrería, por está razón te digo, que casi me encuentro contento de haber realizado tu trato con los condenados gitanos, pues por haber hecho tal negocio con ellos, al resultarme tú del todo ciego, mis vecinos me quitaron desde hoy el nombre de Pin el Sordo, desde el mimo momento que el Puchegu me llamó Pín el Topíu, que es lo mismo que si me bautizase el cura de nuevo. —Aquel gigante de ciego pollino, bien dirigido por el inteligente Pín el Topo, con tal precisión realizaba todos sus trabajos, que era querido, aponderado y respetado, no sólo por las gentes de mi aldea, sino en todas las otras que la rodeaban. Y era tan renombrado aquel excepcional pollino, porque hacía cosas que jamás habían sido hechas por ningún otro pollino aunque tuviese los ojos con buena vista, el ciego burro, que siempre tenía el pesebre lleno de buena hierba, que érale para él manjar divino, engordó y se rehizo, al tenor que iba sacando la miseria y el hambre de su cuerpo, y como era aun joven dentro de lo que cabía, se hizo un pollino aún casi mejor que los que tenían de sementales en la cuadra de la parada. —Un día su vecino el Puchego, le dijo a Pín que su pollina andaba en el celo de necesitar semental, y que si le dejaba que su pollino la cubriera. Pín que no alcanzaba el hacer las sátiras tan bien niveladas y agudas como el Puchegu, que fue capaz de cambiarle el nombre de Pín el Sordo por el de Pín el Toípu, si que su pensamiento casi siempre navegante en la inteligencia le alumbró lo siguiente. —Como mi ciego pollino es semental de postinera parada, y no sólo por su gallarda presencia, sino porque tal parece que también tiene una pequeña alma, si tú deseas que cubra a tu pollina, me tienes que pagar por tal servicio un duro, y esto a ti que eres vecino de la puerta de casa, pero a todas las demás gentes que quieran pedirme lo mismo que tú, les cobraré dos pesos más, pues tener en el establo una descendencia de mi pollino, es lo mismo que poseer la mayor joya de toda la burrería. Con esto pretendo decirte querido vecino de la puerta casa, y con la rebaja que te estoy haciendo, tú bien me puedes hacer una buena propaganda.

    Primer Diccionario Enciclopédicu de la Llingua Asturiana > xitanus

См. также в других словарях:

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  • ci (1) — {{hw}}{{ci (1)}{{/hw}}A pron. pers.  atono di prima pers. pl.  ( formando gruppo con altri pron.  atoni si premette a si  e a se ne : con lui non ci si intende proprio ; non ci se ne tira fuori . Si pospone ai pron. mi , ti , gli , le : gli ci… …   Enciclopedia di italiano

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